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24 MAGGIO 1915 – 2015, LA BIBLIOTECA DEL COVO RICORDA IL CENTENARIO DELLA VITTORIA DELL’INTERVENTISMO RIVOLUZIONARIO MUSSOLINIANO!

mussodiario

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Nel centenario della vittoria politica e morale dell’interventismo rivoluzionario, voluto e capeggiato da Benito Mussolini, la “Biblioteca del Covo” vuole ricordare quel frangente fatidico che ha cambiato la storia d’Italia e del mondo con un documento storico d’eccezione, che descrive con chiarezza e lucidità uno dei momenti salienti nel corso delle vicende umane.

ILCOVO

«Il 24 maggio non è soltanto la data che ricorda la nostra dichiarazione di guerra, ma è anche, e vorrei aggiungere soprattutto, la data che segna il compimento vittorioso della prima fase della Rivoluzione fascista ».

[Benito Mussolini, Discorsi del 1929, ed. Alpes, Milano, pag. 195.]

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« L’intervento prepara il Fascismo. L’intervento annun­cia la Marcia su Roma. »

[Benito Mussolini, Discorso di Milano, 24 maggio 1930. “S. E D.”, vol. VII, pag. 210.]

L’INTERVENTISMO.

Prima che un momento specifico della storia italiana recente, interventismo, per il Fascismo, è un atteggiamento dello spirito, uno degli aspetti essenziali della sua concezione della vita; un elemento, insomma, della sua morale ed una proiezione del suo temperamento. Nel quadro dei vari fattori che compon­gono l’etica fascista l’interventismo ha una sua particolare fisionomia, in quanto attesta e rivela talune peculiari qua­lità (come la volontà di osare, la prontezza, la tempestività della risoluzione, il valutare il momento e l’efficacia del­l’azione, il subordinare i meschini interessi egoistici ai grandi interessi nazionali di fronte ad avvenimenti deci­sivi) le quali formano uno stile di vita individuale e col­lettivo capace di affrontare e risolvere questioni di grande rilievo nell’esistenza dell’uomo e della patria. Sotto tale profilo l’interventismo è un aspetto non contingente ma eterno dell’etica fascista, opposto al retrivo disinteresse per le imprese nazionali, all’imbelle adagiarsi sulle posi­zioni raggiunte, al pavido conservatorismo di coloro che temono di perder ciò che hanno, al vile ritirarsi di coloro che non sanno rischiare pure quando è in giuoco l’avve­nire della nazione. Anche, naturalmente, sul terreno concreto dell’azione politica l’interventismo ha un suo modo d’essere univer­sale, nel senso che dà rilievo e carattere ad un certo momento storico che soltanto per una decisa volontà d’operare può essere risolutivo. Se nella vita individuale l’indecisione, l’incertezza e, soprattutto, il dichiararsi neutro di fronte alle varie situazioni che esigono risolu­zioni pronte e spesso audaci sono biasimevoli e nocivi; a maggior ragione nella vita delle nazioni è necessario in determinate occasioni decidersi, osare, affrontare il destino e forzarlo. La storia è piena di questi momenti, che tal­volta energia di capi hanno trasformato in vere pedane per il salto in avanti di popoli e di nazioni. In special modo è necessario uscir fuor dal vago, dall’incerto, dall’abulico, prender partito, perché, in caso contrario, s’è sempre sog­giogati e vilipesi. Questo ammoniva già Machiavelli nei suoi “Discorsi”: « le repubbliche irresolute non pigliano mai partiti buoni, se non per forza, perché la debolezza loro non le lascia mai deliberare dove è alcun dubbio, e se quel dubbio non è cancellato da una violenza che le sospinga, stanno sempre mai sospese ». (I, 38). E più incisivamente ciò ammoniva anche, trecento anni dopo, Sismondi, rilevando che i popoli i quali prendono, in un certo momento della loro storia, l’iniziativa politica, la conservano per due secoli. Era questo il caso dell’ Italia nel ’14 e nel ’15, come precisò ancora ai primi del ’18 MUSSOLINI (Scritti e discorsi, I, p. 309 segg.), di fronte al tumulto, degli avve­nimenti europei, che risvegliarono passioni e sentimenti fortissimi all’interno del paese. Nonostante che le previsioni di una guerra, e di una guerra di grandi proporzioni, non fossero mancate anche in Italia (basterà ricordare, tra gli altri, il Villari, che nel giugno del ’14 chiedeva sulla “Nuova Antologia” che cosa avrebbe fatto l’Italia nell’immancabile conflitto tra l’Inghilterra e la Germania) l’attentato di Sarajevo e le complicazioni che ne seguirono subito provocarono una notevole perplessità anche nel nostro paese, il quale attra­versava, proprio allora, una fase di irrequieta tensione di animi e di forze politiche e sociali. L’impresa libica, da poco conclusa, se aveva dato alla nazione la sua quarta sponda, aveva altresì richiesto uno sforzo politico mili­tare ed economico, che trovava ancora nei partiti di sinistra un’avversione notevole. L’allargamento del suffragio operato da Giolitti aveva imbaldanzito le sinistre e, indi­rettamente, aveva contribuito a far emergere conflitti politici e sociali in gran parte fin’allora latenti. Le forze in contrasto erano disparate, non ben orientate, non omo­genee nella struttura e nei fini. Un cinquantennio appena di vita unitaria, se era stato sufficiente a dare alla nazione ordinamenti abbastanza saldi, non poteva aver costituito un cemento veramente organico, specie sul terreno sociale, ove le masse, quando non erano falcidiate dall’emigra­zione, erano sobillate da gruppi politici inquieti o corrotte dall’elettoralismo. I residui storici, liberalismo, democra­zia, volti ad adattarsi ai nuovi tempi e alle nuove esigenze, ma combattuti ed osteggiati dai partiti nuovi, specie socia­listi, e da tendenze, se non ancora partiti, nuovissime, di destra, di innovazione nazionale. Periodo insomma di tra­sformazioni interne: i cattolici da poco ufficialmente rien­trati come tali nell’agone dell’azione politica; gruppi audaci di repubblicani, ancora romantici e socialisteggianti; il socia­lismo in crisi, in via di trasformazione; dei capi, taluni irri­ducibili, altri, come si diceva, « ministeriabili ». Il giovane partito nazionalista ancora una élite, un gruppo di intellet­tuali che agitava propositi di espansione e di ordine nazio­nale. Le nuove idee del sindacalismo rivoluzionario in parte ancora, da noi, patrimonio di teorici, in parte adattate, o travisate, da taluni settori del socialismo alla lotta politica. Il grosso della massa, tuttavia, assente dalla politica e dallo stato. La « settimana rossa » del giugno del ’14, provocata dalle fazioni estreme dei partiti di sinistra, non aveva, in realtà, scosso quella grande dormiente, ma aveva fatto uscire nelle strade, accanto a pochi nuclei di socialisti, di anarchici, di sovversivi, una feccia inqualificata che sac­cheggiò, ove poté, negozi d’ogni genere. All’improvviso, almeno per la maggior parte degli Italiani, la guerra in Europa: il 23 luglio ultimatum austriaco alla Serbia, il 28 le grandi misure preparatorie della mobilitazione in Francia, il 30 mobilitazione russa, il giorno dopo quella austriaca, il 1° agosto dichiarazione di guerra della Germa­nia alla Russia. Poi dichiarazione, il 3 agosto, della guerra della Germania alla Francia, il 4 invasione del Belgio. Giornate di stordimento, di emozione, di angosce anche in Italia. Il governo (presidente del consiglio Salandra, ministro degli esteri Di San Giuliano) aveva dichiarato il 2 la neutralità italiana. In quel momento la decisione fu ed apparve opportuna. Il trattato della Triplice non ci legava, in quella circostanza, ad Austria ed a Germania, la prima soprattutto non attaccata dai Serbi, quindi non in diritto d’esser aiutata dall’Italia. Nella prima settimana di agosto non c’era consiglio migliore da prendere che la neutralità. Anche il gruppo nazionalista non certo incline, per la sua natura, alla neutralità, considerò ugualmente gli eventi. L’Italia, in realtà, non aveva avuto alcuna parte, né diretta né indiretta, nell’origine e nello svolgersi della guerra. Poteva avere, come ebbe, simpatie prima, esigenze poi, di carat­tere politico e nazionale. Motivi tutti che a poco a poco durante l’estate s’andarono sviluppando ed ingigantendo sotto la pressione degli avvenimenti e si affermarono decisamente ai primi dell’autunno. V’erano ragioni d’indole sentimentale: la resistenza dei Serbi, l’invasione del Belgio dopo la eroica, ammirata difesa del piccolo stato contro il temuto esercito germa­nico; la naturale simpatia per gl’irredenti Italiani, che fremevano ed in parte erano in Italia. Uno stato d’animo generoso si formò da noi. Specialmente il ricordo delle cam­pagne contro la vecchia Austria, con la quale l’Italia aveva già dovuto lottare ancora meno di cinquant’anni prima per poter unificare la nazione, agì come stimolo efficace. Si trattava tuttavia ancora di tendenze incerte, non orien­tate da una logica o da un programma. Nel settembre il governo poté iniziare trattative con Vienna per le riven­dicazioni italiane. Ma a poco a poco la marea saliva e la passione invase i migliori Italiani. E fu la passione dell’in­terventismo, per l’Intesa, ma soprattutto per la guerra all’Austria. Polemiche, discussioni, prime agitazioni nel paese. Scissioni di partiti e conflitti di tendenze: in tutti i partiti, in quello liberale, in quelli democratici, in quello repub­blicano, una frazione del quale, ligia al romantico pas­sato mazziniano, si dichiarò per l’intervento contro l’Au­stria. Ma più di tutte notevole la scissione del partito socia­lista, sul quale già dominava MUSSOLINI, che al partito aveva dato un calore di vita ed un fervore polemico che dovevano, poi, travasarsi in azioni non rinnegatrici della nazione. Il partito aveva dichiarato la più assoluta intran­sigenza per la neutralità; e lo stesso suo giornale, “l’Avanti!”, diretto da MUSSOLINI, fino al settembre aveva sostenuto, se mai, la necessità della rivoluzione in caso contrario. Ecco invece, ai primi di settembre, i sintomi della crisi: MUSSOLINI accenna a cambiar tono, la neutralità è impu­gnata come pericolosa, l’idea della guerra, guerra italiana, si profila. Clamori ed urla di tradimento si sollevano. In una lettera al “Resto del Carlino” MUSSOLINI precisa meglio il suo atteggiamento. La guerra è inevitabile; la guerra che può distaccare le parti attive del popolo italiano dalla borghesia conservatrice, dalle forze resistenti del pacifi­smo, delle maglie del parlamentarismo. Il 15 novembre MUSSOLINI pubblica il suo giornale, “Il Popolo d’Italia”, per la guerra, per l’ intervento, per l’Italia. L’articolo iniziale ha un titolo sintomatico: « Audacia ». L’interventismo è lì; e si rivela come una riscossa rivoluzionaria di popolo, di popolo—nazione alla conquista del suo avvenire, civiltà, benessere, grandezza, stato nuovo; programma, insomma, non immediato soltanto di azione bellica o di politica con­tingente, ma di largo respiro sociale e morale, per cui l’in­tervento doveva costituire il primo passo verso una rivo­luzione nazionale integrale di forme, di spirito oltreché di uomini e di partiti. Molti seguirono già allora MUSSOLINI. Alcuni provenienti dal suo partito, come Filippo Corridoni, l’apostolo del sindacalismo nazionale; altri gli si affiancarono, di quelli già usciti dal partito o provenienti da gruppi o da tendenze diverse. Alla gran massa degli Italiani il gesto di MUSSOLINI non apparve tuttavia, subito, nella sua vasta portata; e nemmeno a coloro che si avvicinarono all’idea dell’intervento, ma per altri motivi. Giacché l’interven­tismo, se fu un gran moto che nel complesso spronò alla guerra, ebbe motivi diversi e stimoli talvolta contrastanti. Per i liberali, o per quella frazione che si decise per la guerra, l’intervento doveva significare completamento della guerra d’unificazione nazionale, conquista del Tren­tino e della Venezia Giulia, fine, insomma, del capitolo Risorgimento, non ultimato né nel ’66, né nel ’70. Visione, cotesta, senza dubbio nobile, ispirata a ricordi magnanimi; ma priva di un contenuto nuovo, sociale e rivoluzionario; onde la guerra si rivelava come una postilla di quelle già combattute nel ’48 o dopo; come, se mai, una rivincita definitiva contro l’Austria. Diversa la concezione democratica dell’ intervento, sti­molata da un’accorta propaganda delle nazioni dell’In­tesa. La guerra doveva costituire la reazione dell’ingiu­stizia effettuata dalla Germania nel Belgio, dall’Austria in Serbia; doveva punire i massacri dei bambini belgi, i violatori dei trattati, chiamati, è vero, incautamente da un politico germanico chiffons de papier. Inoltre, presen­tata la guerra come guerra di civiltà contro la barbarie, l’intervento avrebbe dovuto, con la definitiva sconfitta del militarismo tedesco, chiudere per sempre l’èra delle guerre in Europa e nel mondo; instaurando stati nazionali perfetti, in modo che ogni passione fosse scomparsa dalla scena della politica internazionale. Infine per motivi non solo di rivendicazioni territoriali ma di prestigio morale e politico, di espansione, di energia nazionale la guerra era voluta dai nazionalisti; e, come s’è accennato, per ragioni prevalentemente irredentistiche, di irredentismo sentimentale, da alcuni repubblicani. Influivano, specie sui giovani, tendenze letterarie e cul­turali; influsso delle teorie nietzschiane della volontà di potenza, influsso del dannunzianesimo esaltatore dei valori nazionali innestati nel quadro di una visione romantica della vita; influsso di altre teorie attivistiche, non rinun­ciatarie: sindacalismo antiborghese e pragmatismo e cioè azione, fare, operare; reazione all’oppressione culturale germanica, ritenuta dominatrice della scuola superiore italiana e pertanto freno, alle possibilità costruttive della energia spirituale nostra; e, infine, il futurismo, reazione anch’esso al vecchio, alla retorica, alla stasi, al non fare; esaltazione del dinamismo, dei valori energetici e per­tanto della guerra, definita dal fondatore del movimento, F. T. Marinetti, « sola igiene del mondo ». Molti di questi motivi, naturalmente, si fondevano e si confondevano nei più degli Italiani e specie nei giovani e nei giovanissimi, soprattutto negli studenti. In questi ultimi, che ebbero una parte notevole nel movimento per l’intervento, prevalevano sentimenti genericamente pa­triottici, frutto degli studi e dell’educazione impartita nelle scuole medie. Il ricordo dell’oppressione austriaca nella Lombardia e nel Veneto (in parte anche esagerata dalla storiografia scolastica, che, tra tanti difetti, ebbe tuttavia il merito di inculcare nell’animo degli scolari un ardore antiaustriaco), l’irredentismo presentato alla fan­tasia dei giovani come una liberazione urgente di vittime oppresse e martirizzate; e, per converso, la descrizione di atrocità (forse non mai commesse) dai Tedeschi nel Belgio formarono nei giovani tante idee—forza che rag­giunsero la loro maggiore efficacia specialmente negli ultimi mesi del movimento. È’ indubbio, comunque, che la generazione che toccava all’incirca i vent’anni fu una delle molle propulsive dell’intervento; ed il suo entusiasmo contribuì enormemente alla decisione del maggio. Contro tali entusiasmi, quello dei giovani e degli altri interventisti, reagivano talune correnti (che subito furono chiamate neutraliste) le quali in varia guisa, a seconda delle loro ideologie politiche e del loro atteggiamento spirituale, consigliavano una prudente attesa o addirit­tura una netta rinuncia alla guerra. Per il gruppo di libe­rali che faceva capo al Giolitti la neutralità avrebbe potuto essere sfruttata dall’Italia ottenendo ricompense dall’Au­stria, secondo le legittime aspirazioni nazionali. Ancora ai primi di febbraio il Giolitti, in una lettera al Peano rima­sta come il documento più caratteristico di quella neutra­lità, affermava che l’Italia, senza la guerra, avrebbe potuto ottener « parecchio » (o, secondo altre versioni, « molto »). Questa tesi veniva, naturalmente, caldeggiata da molti conservatori, dai timidi e dai parrucconi, i quali tentavano opporre alla deficiente organizzazione militare italiana la potente struttura degli eserciti dell’Europa Centrale e della Germania soprattutto. Altri insistevano sul dato economico dell’impresa, adducendo il fatto che l’Italia, paese povero, non avrebbe potuto sopportare lo sforzo di una guerra che sarebbe stata lunghissima. Obiezioni del genere se n’odono sempre, in circostanze analoghe; e son fatte dai pruden­toni della politica, da coloro che hanno educato il loro animo allo spirito borghese e per i quali non occorrerebbe far mai nulla di nuovo, per tema degli imprevisti e dei rischi. La realtà è stata e sarà sempre diversa. Comunque, è un fatto che quando una grande impresa s’inizi v’è chi s’incarica di prospettare cifre e pericoli; senza accor­gersi che le cifre le creano proprio le grandi imprese e che i pericoli anziché freni sono stimoli a certe azioni. Diverso, naturalmente, l’atteggiamento dei socialisti. Avvenuta già nel settembre la scissione tra MUSSOLINI ed il resto del partito, questo continuò ad opporsi alla guerra, non tanto per ragioni di solidarietà internazionalistica (l’Internazionale era già morta nei paesi in conflitto), quanto per naturale avversione al fatto bellico, alla guerra di conquista, secondo le infatuazioni antimilitaristiche in voga in quel periodo. Di inutile strage si parlò anche in campo cattolico, con intenzioni, s’intende, diverse. I cattolici, da poco entrati nella vita politica nazionale, non pote­vano non ascoltare la parola pacificatrice dei pontefici; di Pio X prima, di Benedetto XV dopo, i quali esortavano i combattenti alla pace e non certo potevano inculcare sentimenti di guerra negli altri popoli. È’ noto tutta­via come, a guerra dichiarata, i cattolici italiani facessero egregiamente il loro dovere; e, vale aggiungere, la loro non fu pregiudiziale tanto politica quando religiosa e cioè dettata da sentimenti di umanità cristiana. Tutte queste varie tendenze ebbero, naturalmente, una loro letteratura, i loro giornali, i loro oratori, i loro comizi. Talune di esse erano altresì alimentate da una intensa propaganda fatta in Italia dai paesi in lotta. A rileggere, oggi, la maggior parte di quella stampa, a parte il calore della lotta ideale, ci si può accorgere come gran parte dei motivi polemici fosse contingente ed occasionale. Non contingente ed occasionale era (e ce ne possiamo ben accorgere a distanza) la posizione assunta da MUSSOLINI, che solo vide e profeticamente intuì il valore rivoluziona­rio, politico morale e sociale, dell’ intervento per l’Italia. Già un mese dopo l’inizio del “Popolo d’Italia” MUSSOLINI scriveva sul suo giornale: « Bisogna agire, muoversi, combat­tere e, se occorre, morire. I neutrali non hanno mai domi­nato gli avvenimenti. Li hanno sempre subiti. È’ il sangue che dà il movimento alla ruota sonante della storia » (I, 24). Il 25 gennaio, all’adunata dei Fasci d’azione interventista (i Fasci che, sebbene con diversa sostanza, anticipano di quattr’anni i Fasci di combattimento) MUSSOLINI dice: « ogni giorno sentiamo che c’è qualche cosa in questa Italia che non funziona; in questo ingranaggio statale c’è qualche dente che stride, qualche ruota che non cammina; il paese è giovane, ma le forme sono vecchie » (I, 34). Era, insomma, già la frattura tra il vecchio ordine ed il nuovo; quello ancorato ad una tradizione che aveva, sì, i suoi titoli di nobiltà, ma che appariva pesante e che, soprattutto, non sentiva la voce delle masse, non inter­pretava l’ansia rivoluzionaria del popolo; l’altro, invece, sorto già dal popolo e pel popolo; che era stato assente in gran parte della vita politica italiana e che poteva e doveva, come infatti avvenne, rinsanguare, sia pure a patto di un gran sacrificio, il corpo anemico dello stato. L’intervento, insomma, per MUSSOLINI era una diana di azione, era l’espressione della volontà del popolo di agire, muoversi, inserirsi nel moto della storia, guidarlo anzi. E da questa fiamma erano illuminati i seguaci di MUSSOLINI; e, primo tra gli altri, Filippo Corridoni, che fu il vero apostolo dell’interventismo popolare. L’azione svolta da MUSSOLINI, a mezzo del suo gior­nale, a mezzo dei Fasci di azione, a mezzo di comizi fu intensa specie dopo il gennaio. A MUSSOLINI arriva­vano messaggi da ogni parte d’Italia, i quali lo salutavano già come l’iniziatore della riscossa ed il condottiero della nuova Italia. Qualche mese dopo Corridoni, dalla trincea, doveva chiamarlo, per primo, « Duce ». La polemica e l’ardente passione interventista dilagarono ancor più nei mesi successivi, giacché pareva che il governo non facesse nulla per uscire dalla posizione d’attesa. Dopo l’annuncio, dato da Salandra alla Camera il 3 dicembre, che la nostra voleva essere una neutralità « armata e pronta ad ogni evento », il paese non seppe più nulla (e forse non poteva sapere) di quel che si stesse preparando o meno. Le stesse misure di adeguamento militare alla situa­zione a molti parevano insufficienti. L’azione diplomatica appariva lenta e inesistente. In realtà già nel dicembre Sonnino (succeduto al Di San Giuliano agli esteri) aveva chiesto all’Austria compensi per la sua avanzata nei Bal­cani; il 4 marzo veniva presentato al governo inglese il memorandum col quale si precisavano le condizioni dell’in­tervento italiano; richieste, com’è noto, boicottate dalla presuntuosa vanità di Sazonov. Ma il popolo, e specialmente le frazioni di esso più audacemente interventiste, non voleva e non sapeva aspettare; e aumentò sempre più a pressione, che divenne nel marzo e nell’aprile irrom­pente e decisiva. Il popolo insomma, nelle sue espressioni più vive, desiderava intervenire, passare all’azione; e ad ogni circostanza mostrava questo suo stato d’animo, che non era né comprimibile né modificabile. Ai funerali di Bruno Garibaldi, accorso con il fratello Costante (caduto poco dopo anch’egli) con un manipolo di compagni ad arruolarsi in Francia, parteciparono, a Roma, centinaia di migliaia di persone: un nuovo protagonista è entrato nella storia d’Italia, notava MUSSOLINI: il popolo vuole, impone la guerra! Si creò e dilatò il pathos della guerra. Il sacrificio di Bruno e Costante Garibaldi assurse a simbolo di impegno morale per gl’Italiani contro gl’imperi centrali. Dovunque si cantava il ritornello che la musa popolare aveva creato per i due fratelli morti « … prima Bruno e poi Costante… ». Gl’inni patriottici furono sulle bocche di tutti ad ogni ora. Un lugubre canto si diffuse fra i giovani e fu quasi l’inno dell’interventismo studentesco: « morte a Franz, viva Oberdan… ». Franz era, naturalmente, Francesco Giu­seppe. Le rappresentazioni di Romanticismo di Rovetta davano luogo a dimostrazioni irrefrenabili di patriottismo. Qualche conflitto era già avvenuto per le strade tra inter­ventisti e forza pubblica che tentava difendere le sedi dei giornali neutralisti e dei partiti non interventisti. Movimento, azione, passione di piazza, dunque; al di sopra dell’azione di governo o degli organi responsabili. La stessa camera dei deputati non parve vibrare di quella passione; ed anzi pareva irrigidita nell’attesa, o addirit­tura pareva più propensa alla neutralità che all’intervento. I 300 biglietti da visita lasciati nella portineria dell’on. Giolitti appena fu chiaro l’atteggiamento del ministro Salandra (il quale, frattanto, il 26 aprile aveva firmato il Patto di Londra, il 2 maggio aveva stipulato la conven­zione militare con gli stati dell’Intesa ed il 3 maggio aveva denunziato la Triplice Alleanza) furono più che una dichiarazione di fede. Furono una provocazione. E l’anima nazionale e popolare prese il sopravvento. L’orazione pronunziata da Gabriele d’Annunzio a Quarto nell’anniversario dell’imbarco dei Mille, il 5 mag­gio, suonò come una diana; ma il popolo era già sveglio, e da un pezzo. Le dimissioni di Salandra il 13 maggio (provocate dall’insensibilità parlamentare) dettero la con­ferma di quel che sentiva e voleva ed imponeva la nazione vera, la nazione autentica al di sopra di tutto. MUSSOLINI dalle colonne del “Popolo d’Italia” tuonava contro i nemici della patria, contro i nemici del popolo. Dimostrazioni violente s’ebbero in tutti gli angoli d’Italia. Si voleva la guerra contro l’Austria, ma si voleva soprattutto la guerra nazionale, che desse al mondo la sensazione di quel che era l’Italia e che desse agli Italiani stessi la coscienza della loro forza e della loro audacia. Fu una rivoluzione, in­somma, nel maggio: rivoluzione di popolo contro i ceti dirigenti (borghesia, parlamento specialmente); imposi­zione di una volontà solare e decisa a tutto. Frattura, insomma, come in tutte le rivoluzioni, tra il vecchio mondo ed il nuovo; il quale prorompeva dall’animo di generazioni giovani e rinnovate da ideali di lotta, di redenzione morale e sociale, di conquista insomma del proprio avvenire. E ciò comprese la Corona, sensibile alla reale volontà del paese. Il colloquio svoltosi a Villa Savoia tra il Sovrano e l’on. Salandra il 16 maggio, così com’è narrato dallo stesso presidente del consiglio, riverbera il dramma poli­tico dell’ora: o sentire le profonde vibrazioni dell’anima nazionale o seguire i consigli di prudenza dei vecchi uomini, delle categorie dominanti; o la guerra, cioè, o una più accesa rivoluzione. Ma non poteva più esserci titubanza o indecisione. Il Salandra fu confermato: ciò voleva significare nettamente la guerra. All’indomani, sul “Popolo d’Italia”, MUSSOLINI poteva ben dire: « volontà di guerra. L’ha dichiarata il popolo al disopra della mandria parlamentare… Dopo 33 anni l’Italia conquista la sua autonomia ». E soggiungeva: « la guerra è; ed è guerra di popolo che vincerà questa « sua » guerra… » (I, 40, 41). Giornate, poi, di delirante passione nazionale. Dimo­strazioni, cortei, entusiasmi vibrantissimi. A Roma ed altrove, all’annuncio dei pieni poteri accordati dalla camera al governo dopo la presentazione del Libro Verde relativo alle relazioni italo-austriache, il 20 maggio, i gruppi interventisti, ai quali frattanto nuovi numerosis­simi aderenti s’erano aggiunti, parvero presi dal delirio della vittoria. Era, infatti, la vittoria già di essi, della gio­vane nazione. Ore indimenticabili: militari portati in trionfo, bandiere baciate nei caffè, nelle vie; irredenti, che avevano partecipato anch’essi alla campagna interventista e che attendevano la decisione di momento in momento, singhiozzanti nei cortei, nelle dimostrazioni. E poi fu la guerra, che fu rivoluzionaria, perché tutto fu in giuoco, tutto in pericolo, « e molto andrà sommerso e molto rovinato » come diceva MUSSOLINI nel ’17 (I, 269); la guerra che prese davvero tutto il popolo in tutti i suoi strati, trascinato dalla passione degli audaci; che furono pochi all’inizio del movimento interventista e, come sempre è delle grandi cause, ebbero ragione; e per­ché ebbero ragione vinsero. Una prima volta, così, la nazione vinse nel maggio, una seconda nel ’18, una terza nel ’22. I tre momenti sono animati da una stessa fede e permeati da una stessa logica. È’ pertanto perfettamente vero che « dal maggio 1915 ha inizio la rivoluzione italiana, nella quale il popolo cessa di essere spettatore, per diventare finalmente il protagonista unico sulla scena della storia » (MUSSOLINI, VII, 210).

Dizionario di Politica a cura del P.N.F., vol. II, Roma, 1940, pp. 555 /558

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