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COLLABORAZIONE DI CLASSE FASCISTA!

La collaborazione di classe: ecco un motivo che ricorre frequente nelle discussioni politiche, di stampa e di governo. In questo o quel Paese dal clamore delle polemiche elettorali o delle diatribe parlamentari sì alza talora una voce che, col tono di chi scopre il rimedio unico e vero di tutti i mali sociali invoca la collaborazione e chiama per essa a raccolta gli uomini di buona volontà. In questo o quel Paese, le cose non vanno precisamente come dovrebbero andare: nell’economia, nella politica interna ed estera manca quell’azione governativa organica ed efficiente, che solo può derivare dalla concordia degli spiriti e dall’unione di tutte le energie. La concordia e l’unione mancano, perchè le classi che vivono nella Nazione non hanno trovato un piano d’intesa, un punto d’incontro. E ’ tempo — si dice allora — di por fine alla lotta delle classi e le classi devono collaborare, perchè è nella collaborazione l’unica via di salvezza. E’ estremamente facile, in verità, riconoscere che il benessere e la prosperità di qualsiasi organismo presuppongono l’armonico e coordinato funzionamento di tutti i suoi organi. Così nella fisiologia come nella vita familiare, economica, statale, questo principio — principio della collaborazione in senso lato — è di tutta evidenza. Ma, in politica, non basta enunciare un principio perchè esso trovi accoglimento e sviluppo: e non basta, anche se la propaganda sia abile e intensa e il principio, considerato a sè e intrinsecamente, sia buono. Esso è come la semente, che può essere ottima, ma rimane sterile se gettata su un terreno inadatto e impreparato. Affermare il principio della collaborazione è ottima cosa; ma è cosa perfettamente inutile, se non vengono realizzate le condizioni spirituali e politiche necessarie perchè esso possa esprimere la propria vitalità e produrre i suoi frutti. Quando noi fascisti parliamo di collaborazione di classe, vogliamo chiarire che tale collaborazione si inserisce nel nostro sistema politico ed economico, ricevendo rilievo e vita dalla concreta realtà dello Stato Fascista. Dire preliminarmente qualche parola su tale realtà fascista dello Stato significa fare intendere come il nostro sistema di collaborazione delle classi abbia potuto rivelarsi — ma alla prova dei fatti e, ormai, alla luce della Storia — fecondo di risultati dal punto di vista sociale e politico. Non si tratta, certo, di svelare un segreto: tutto il segreto del nostro sistema è nei principi per i quali il movimento fascista è sorto e la Rivoluzione Fascista ha trionfato. La collaborazione di classe in Regime Fascista va considerata in relazione al fondamento etico e nazionale dello Stato. 

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Il campo delle forze politiche, economiche, sociali è dominato da un sistema di interdipendenze, di azioni e di reazioni, di subordinazioni e coordinazioni necessarie, che rendono impossibile un controllo, una disciplina e un preciso convogliamento di quelle forze, qualora si prescinda dalla loro organica e funzionale unità. La vita politica è un dato complesso, nella quale agiscono molte e varie forze; altrettanto è della vita economica o di quella spirituale di un popolo. Tutte insieme, poi, queste forze di diversa natura agiscono sul corpo sociale, determinandone i diversi modi e sviluppi di vita. Si può dire che l’organizzazione di una società è tanto più perfetta, quanto migliore è il rigore unitario con cui sono visti e risolti i suoi vari problemi. E poiché la forma organizzativa della società moderna ha carattere politico-giuridico, ed è quello statale, si può dire che lo Stato migliore è quello in cui meglio è assicurata quella unitarietà. Funzione propria dello Stato deve considerarsi, attraverso un processo generale di integrazione e di coordinazione, la riduzione ad unità di tutti gli elementi che nello Stato esistono e di cui esso vive, perchè nessun aspetto della vita sociale — la quale si attua nell’ambito e per mezzo dello Stato — può essere isolato e considerato a sè stante, se non per comodità di ricerca e di studio. Il che vuol dire che nessun problema può essere studiato e risolto, fuori del quadro complesso della vita sociale, e cioè statale. Il grado di funzionalità unitaria dello Stato è dunque il grado di vitalità dello Stato, e se à vuole che la vitalità sia massima, si sbocca per logica necessità e convenienza nella totalitarietà. Lo Stato totalitario, accentrando in sè tutte le energie e forze sociali, ha un potenziale massimo ; i suoi fini hanno la maggiore possibile garanzia di essere raggiunti, in tutti i possibili campi, al di dentro e al di fuori. Tutto ciò, s’intende, presuppone che allo Stato voglia assicurarsi una vitalità, che veramente esso abbia propri fini da raggiungere, una missione da svolgere. Chi nel passato intendeva riconoscergli una funzione puramente negativa, di limite, un compito prevalentemente di polizia, di tutela dei diritti individuali, non poteva evidentemente preoccuparsi di una vitalità dello Stato: anzi la respingeva, ne distruggeva il fondamento e la ragion d’essere. Chi oggi persiste a considerare in tal modo l’essenza e la natura dello Stato, non può intendere lo Stato totalitario. Il quale è però una necessità ed una realtà che s’impone a quanti sono disposti a convenire che nella società moderna esistono fini propriamente statali, e di importanza ognora crescente, perchè è l’incessante progresso economico e sociale che, rafforzando e moltiplicando i legami tra gli uomini, determina la necessità di una organizzazione sempre più complessa. Ogni nuovo bisogno implica un nuovo vincolo sociale, una nuova ragione di solidarietà. Ogni nuovo bisogno provoca una diminuzione di quella che potrebbe chiamarsi libertà naturale dell’uomo. Il maggior grado di libertà naturale è quello di cui gode l’uomo primitivo e selvaggio. I suoi bisogni sono pochi ed elementari e minimi sono i suoi vincoli di solidarietà. Ma la libertà naturale è la meno consona allo sviluppo morale e civile degli uomini, i quali sentono di preferire una vita associata e solidale che meglio assicuri il raggiungimento delle loro mete. E man mano l’evoluzione delle forme sociali è tale che nuovi ideali si affermano. L’organizzazione politica degli uomini, lo Stato, non è un semplice strumento ma assurge alla dignità di altissimo ideale umano. Più gli individui dànno allo Stato, più lo Stato dà agli individui. Lo Stato diventa un supremo valore morale che, rafforzandosi, non deprime l’individuo, ma ne esalta le qualità più elevate. Una concezione totalitaria dello Stato, come quella fascista, non uccide nè mortifica l’individuo: sopprime bensì l’individualismo, inteso come concezione atomistica della società, secondo cui l’individuo come tale è posto sullo stesso piano dello Stato, con la conseguente paralisi di quest’ultimo. La dottrina totalitaria è più profondamente « umana » di quella individualista, perchè più consona alla libertà vera dell’uomo, che, in quanto uomo civile vivente in società, deve poter raggiungere nel modo più ampio le proprie finalità superiori, finalità che presuppongono il maggior grado di solidarietà e cioè di collaborazione. La nostra concezione, d’altra parte, non ha niente a che vedere nè con una vuota statolatria, nè con un assolutismo da tempo e senza rimpianto tramontato. Non ha niente a che vedere con la prima, perchè per il Fascismo lo Stato non è un idolo astratto nè un mito immaginario. E’ semplicemente, ma più concretamente, il realizzatore degli ideali morali e materiali di un popolo, è il piedistallo politico in cui vive e si sussegue la serie ininterrotta delle generazioni. E’ il custode e il difensore del passato storico dì un popolo, e in pari tempo l’assertore dei suoi bisogni presenti e del suo incessante divenire. Consacrandosi allo Stato, i singoli non si consacrano a un ente che è fuori di essi, ma a un ente nel quale essi medesimi si ritrovano più altamente e compiutamente, facendolo partecipe dell’immortalità del popolo che in esso si incarna. Nessuna statolatria, dunque, professa il Fascismo, ma soltanto un’alta e nobile e « umana » valorizzazione dello Stato. Quanto all’assolutismo, è chiaro a chiunque non sia in malafede ch’esso è tutt’altra cosa, prima di tutto perchè si riferisce ai poteri del capo dello Stato, più che dello Stato in se stesso, e poi perchè nel concetto e nella prassi fascista lo Stato non si estranea dal popolo, a questo sovrapponendosi, ma getta e mantiene nel popolo saldissime radici. Lo Stato fascista si vanta a giusto titolo di essere un autentico « Stato popolare » perchè nella sua natura e nella sua organizzazione rispecchia profondamente le idealità, i bisogni e le aspirazioni del popolo. 

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La interdipendenza e la complessità dei fenomeni politici e sociali di ogni ordine spiega perchè sia vano pretendere di applicare seriamente in un regime a tipo individualista singoli principi propri dello Stato totalitario. Ammesso che una tale applicazione sia possibile, nessun principio produrrà in pratica i benefici che se ne attendono, se non può inserirsi in un adeguato quadro politico. Ci comprendano, quindi, i nostri nemici ideologici quando noi ci permettiamo di rimanere scettici o di abbandonarci ad ironici atteggiamenti, sentendo che qua e là, sporadicamente, si affermano taluni dogmi di marca fascista o si tentano provvedimenti suggeriti dall’esempio italiano.
Nell’Italia fascista dottrina e azione, politica ed economia, istituzioni sociali e culturali, formano un unico complesso unitario, perchè unici sono i presupposti, uniche le direttive, uniche le finalità. Il nostro corporativismo non è soltanto fascista perchè è realizzato di fattonello Stato fascista, ma soprattutto perchè presuppone necessariamente il Fascismo e si inquadra in esso come un sistema destinato a realizzarne i princìpi e le mete nel campo dell’organizzazione sociale ed economica. E’ per questo che noi riserviamo ogni giudizio quando sentiamo che in un qualche Paese in cui il demo-liberalismo individualista regna tuttavia sovrano, si proclama d’un tratto l’inquadramento dei sindacati nello Stato, o l’istituzione delle corporazioni, o in generale la collaborazione delle classi. La quale non può sorgere per virtù di miracolo o come Minerva dal cervello di Giove. I Paesi in cui si è giunti a un costruttivo ed efficiente ordine sociale hanno subito tutto un duro processo rivoluzionario, che dell’ordine nuovo ha posto le premesse morali e politiche. Doveva essere in primo luogo restituita allo Stato la sua autorità. « Autorità, ordine, giustizia » fu il motto mussoliniano. Il mito individualistico della sovranità popolare, mito distruttore dell’autorità, della dignità e del prestigio dello Stato, doveva scomparire. Di fronte ai contrasti ed alle lotte di interessi fra individui, classi e categorie, contrasti e lotte in cui non di rado si affacciava la strapotenza di associazioni pronte a difendere ad ogni costo i propri fini egoistici senza una superiore visione degli interessi più generali della collettività, era necessario che si ristabilisse un potere capace di imporsi a chiunque, individuo, gruppo od associazione, per contemperare tutti gli interessi in contrasto ed assicurare alla vita sociale ordine e giustizia. E questo potere non poteva essere che dello Stato.
Restaurata l’autorità dello Stato, al quale veniva riconosciuto un essenziale contenuto etico, la rivoluzione fascista alternava altresì l’esigenza di un interesse pubblico, di un «interesse nazionale» di cui lo Stato doveva erigersi a tutore ed al quale gli interessi dei singoli e del gruppi dovevano subordinarsi. Tutta la base dell’edificio corporativo è nell’esaltazione dell’idea nazionale e nell’identificazione della Nazione con lo Stato. La Nazione, nella quale singoli e gruppi devono riconoscersi ed incontrarsi, è concepita come una « unità morale, politica ed economica » (secondo quanto è detto nella prima dichiarazione della Carta del Lavoro) e di fronte ad essa singoli e gruppi hanno innanzi tutto  « doveri ». Questa consacrazione dei doveri è in armonia con l’eticità dello Stato nazionale ed è un elemento che caratterizza la nostra rivoluzione e differenzia la Carta del Lavoro — che a un tale principio si è ispirata — dalle precedenti manifestazioni « cartiste » che mirarono piuttosto (a parte la loro giustificazione storica) a rivendicare i diritti degli individui. La nostra Carta, documento fondamentale della collaborazione di classe attuantesi nell’ordine corporativo, ha rivendicato invece energicamente il diritto della Nazione, e cioè dello Stato, cui i diritti dei singoli devono essere, per logica necessità, subordinati. Diritto dello Stato non è arbitrio dello Stato, che menomi la dignità umana e civile dell’individuo. Erede della romanità, lo Stato Fascista corporativo afferma la sua forza secondo il diritto. 

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E’ perciò nel quadro dei principi della Rivoluzione Fascista che deve essere considerata la collaborazione di classe, quale è intesa e realizzata dall’ordine corporativo. Ma è, a rigore, esatto parlare di collaborazione « delle classi »? Il corporativismo fascista non ha superato la distinzione delle classi? Non ha eliminato il « classismo »? La risposta a queste domande è altrettanto facile quanto necessaria. Il Fascismo non ha segnato il trionfo di una classe e la distruzione di altre. Non è stato un movimento classista, ma spiccatamente nazionale. Probabilmente anche i sistemi che pretendono distruggere le classi (mediante il riconoscimento di una sola di esse) riescono semplicemente a modificare una determinata e storicamente definita distinzione di classi, ma un nuovo sistema di classi, poggiante su altre basi politiche ed economiche, si formerà fatalmente. Restano quindi, anche da noi, le classi sociali, perchè la loro esistenza è in relazione alla molteplicità delle funzioni sociali e alle diversità delle responsabilità rispettive. Che poi cessino di essere in lotta, tra sè e con lo Stato, è una premessa del Fascismo; e che opportunamente si sia eliminato fra di esse ogni solco morale e si tenda ad una riduzione del solco economico, è una conseguenza dell’azione svolta dal Fascismo per raggiungere una più alta giustizia sociale. Quella che è stata abolita è la lotta violenta e illegale e antinazionale delle classi. Contrasti e antagonismi fra le classi non potranno essere eliminati, e forse eserciteranno un’azione utile sulla dinamica sociale, perchè la lotta è vita, movimento, progresso; ma essi devono essere vigilati, moderati e conciliati nell’interesse generale, per evitare che sfocino in quelle forme violente di lotta, che provocano agli stessi contendenti, oltre che alla Nazione, danni difficilmente compensabili e talora irreparabili, come in quasi tutti i Paesi una triste esperienza ha dimostrato. Noi dunque abbiamo distrutto il classismo, non le classi. Ma non è tuttavia alle classi che abbiamo dato un effettivo riconoscimento. Abbiamo invece esplicitamente riconosciuto, al loro posto, le « categorie » professionali ed economiche. L’ordinamento corporativo non poggia su una distinzione fra capitalisti e proletari, ma prevalentemente su quella tra datori di lavoro e lavoratori, qualificando e individuando poi gli uni e gli altri secondo il diverso ramo di attività produttiva. In effetto, la qualità di datore di lavoro non coincide con quella di capitalista, nè la qualità di lavoratore con quella di proletario. La collaborazione che sta a fondamento del corporativismo si svolge pertanto fra « categorie », ed è soltanto in senso improprio e in considerazione di intuitivi legami e di approssimative corrispondenze che si parla di « collaborazione di classe».

(Estratto da “La Collaborazione di Classe”, Roma, 1941)

Potete scaricare gratis il testo integrale del documento digitando sul seguente link (QUI).

 

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