“Una Nazione esiste in quanto è un popolo. Un popolo ascende in quanto sia numeroso, laborioso e ordinato. La potenza è la risultante di questo fondamentale trinomio. Bisogna cominciare dall’inizio di ogni vita. A ciò provvede una creazione tipica del Regime: l’Opera nazionale per la Maternità e l’Infanzia…”
Mussolini, discorso all’Assemblea quinquennale del Regime, 10 marzo 1929.
“Desidero rivolgere un elogio alla gente di Puglia perché è feconda e crede coi fatti nell’unico primato che veramente conta nella vicenda e nella lotta dei popoli: il primato dei figli, il primato della vita.”
Mussolini, discorso di Lecce, 7 settembre 1934.
…“La salute di un corpo vivo si estrinseca con la fecondità. La prolificità è una forza politica. Questo principio vale tanto per una famiglia di contadini, quanto per un grande popolo. La grande portata di questo fatto è stata compresa in Europa, finora, solamente da Mussolini, il quale lo ha proclamato, a favore del suo paese, che non possiede nè carbone nè capitali e che, a causa della sua situazione geografica, non può figurare quale grande Potenza effettiva, fino a tanto che altre grandi Potenze dominano i mari. La prolificità del popolo italiano è la sua unica arma; quest’arma però è tanto forte che coll’andar del tempo non permetterà agli altri di difendersi contro di essa.”
Oswald Spengler, 1928, dalla prefazione a “Regresso delle nascite morte dei popoli”.
Cari lettori, alcune brevi riflessioni maturate dopo oltre un’anno e mezzo di regime tirannico sanitario ci “costringono” a considerare nuovamente la validità del celebre aforisma coniato a suo tempo, tra il serio ed il faceto, da un famoso giornalista ed editore del passato, Leo Longanesi, il quale ebbe a scrivere l’indimenticabile motto “MUSSOLINI HA SEMPRE RAGIONE”! Ebbene, col senno di poi, non possiamo proclamare che il Duce ebbe sempre ragione in tutti i casi, altrimenti, se così fosse stato, la Storia sarebbe andata in un’altro modo; ma di sicuro possiamo affermare che sulla maggior parte delle questioni politiche mostrò una notevole lungimiranza ed una spiccata comprensione della realtà, tali da guardare al futuro con un secolo di anticipo sul suo tempo, una dote storicamente assai rara tra chi in Italia ha svolto funzioni di governo negli ultimi 15 secoli. Difatti, osservando con attenzione l’evoluzione della nostra società dal 1945 e tralasciando dal punto di vista storico solo per un momento le preponderanti ingerenze politiche estere dirette a controllarla, di cui noi fascisti de “IlCovo” abbiamo scritto e denunciato più volte la sostanza (qui e qui) non dovrebbe però sfuggirci, poiché non fu per niente casuale, che la crescita economica italiana del secondo dopoguerra, pilotata dagli occupanti “a stelle e strisce” per nulla disinteressati, a mezzo di appositi strumenti economici del caso, è servita ad introdurre artatamente ed in modo graduale nell’Italia già modernizzata dal Fascismo (ma da esso volutamente educata moralmente alla frugalità, oltreché al combattimento, all’insegna del trinomio virtuoso “Dio, Patria e Famiglia”, secondo una visione del mondo capace di coniugare progresso sociale e Civiltà dello Spirito e derivante dalla sua bimillenaria tradizione contadina, cattolica e romana), quello che è a tutti gli effetti il modello consumistico materialista ed edonista, per gli italiani di allora totalmente nuovo ed affatto inedito, caratterizzante la società anglo-sassone d’oltre atlantico. Ebbene, a mezzo del cosiddetto “benessere”, nel corso dei decenni siamo stati abituati sempre più a coltivare smisuratamente il nostro ego, anche a mezzo di graduali riforme del costume legalizzate progressivamente come il divorzio, l’aborto, la parità di genere e la scoperta di nuovi generi, tutti fattori che hanno minato alle fondamenta l’unità, la saldezza e l’importanza centrale del concetto stesso di Famiglia. Venendo cullati sempre più dalla possibilità di godere di beni materiali e di uno stile di vita rivolto ad uno smisurato consumo insensato ed immotivato di risorse che, mano a mano, la propaganda asfissiante dei media del potere costituito ci hanno fatto ritenere indispensabili, ragioni stesse di una esistenza ormai tutta improntata al godimento dei sensi. Così mentre la nostra vita ha perso sempre più i propri punti di riferimento spirituali ancorati alla nostra millenaria Civiltà, ci siamo sentiti sempre più spesso ripetere all’orecchio, dapprima in modo sussurrato e poi gridato in maniera sempre più ossessiva e pervasiva, determinati concetti che hanno acquisito una valenza quasi ineluttabile e che negli ultimi anni ormai sono divenuti delle costanti nella propaganda mediatica che subiamo passivamente; come il fatto che la diminuzione delle nascite non sia dopotutto solo un male, o che le risorse del pianeta – a prescindere dal “trionfante” modello economico-politico liberal-capitalista, che mai viene messo seriamente in discussione da alcuno e in nessun caso (tranne che da pochi “estremisti fanatici”!) – comunque non basterebbero per tutti e che, ad analizzare la realtà dei flussi migratori odierni, essi di fatto, riempiono positivamente un vuoto che non può essere colmato altrimenti… insomma, secondo loro, ad osservare i fatti in modo più “smaliziato”, il sistema ed i suoi pennivendoli ci raccontano che il “bicchiere” non è affatto “mezzo vuoto”, anzi, basta soltanto saper trovare il bene dove “loro” lo vedono! E così, leggendo sui media “col bollino dei professionisti dell’informazione” è facile imbattersi in affermazioni di tale tenore…
“…Secondo alcune recenti rilevazioni dell’istituto di ricerca IPSOS, in meno di un secolo la popolazione mondiale perderà l’equivalente di tre Paesi delle dimensioni degli Stati Uniti. Questo accadrà sostanzialmente per tre fattori chiave: l’urbanizzazione, l’invecchiamento e il tasso di natalità, sul quale nell’ultimo anno il Covid-19 ha avuto un impatto consistente… Per quanto riguarda il nostro Paese, da oltre un decennio siamo un’Italia sempre più anziana e meno popolata, afflitta da carenze strutturali e legislative a livello fiscale, economico e sociale che ricadono sul crollo delle nascite. Secondo l’Istat abbiamo registrato un ennesimo calo anche nel 2020. Negli ultimi 12 anni siamo passati da un picco relativo di 577 mila nati agli attuali 404 mila, il 30% in meno. Il tasso di fecondità è sceso a 1,24 figli per donna, da 1,27 del 2019. La natalità non è tuttavia un fatto meramente demografico bensì come è emerso agli Stati generali della natalità organizzati qualche giorno fa nel Foyer dell’Auditorium della Conciliazione a Roma, una questione antropologica, politica e ambientale. Senza natalità le famiglie, le società e i paesi muoiono per assenza di futuro e in questo contesto il nocciolo è favorire un cambiamento culturale…” (qui).
E quale mai sarebbe questo “Cambiamento culturale” che, secondo i dotti scribacchini in forza alla propaganda del sistema demo-pluto-massonico al potere, andrebbe favorito? …sono sempre loro che con la solita sicumera dei progressisti illuminati ce lo ripetono pazientemente per farcelo ben ficcare nelle nostre povere menti oscurate da concetti ormai “vecchi e superati”!
“…Alcuni demografi non leggono il calo demografico come un elemento solamente negativo. O comunque non come un dato che di per sé può contenere una valutazione qualitativa così netta, senza sfumature. «Per tutta la storia dell’umanità un bambino su quattro non arrivava al primo compleanno, pochissimi arrivavano all’età per diventare genitori. Quindi la fecondità era compensata dall’altissima mortalità: insomma, a dirla tutta l’anomalia storica è il boom demografico del Novecento. È per questo che il dato sulla quantità di popolazione da solo non permette di dare un giudizio positivo o negativo»… Ci sarebbero anche conseguenze di breve-medio periodo positive da considerare: un pianeta con meno persone consumerebbe meno risorse naturali, rallenterebbe l’impatto distruttivo del cambiamento climatico, ad esempio. « La prima cosa da fare è accettare la diminuzione demografica, non combatterla a tutti i costi. Dopodiché la soluzione, che forse a livello pratico non è ancora stata trovata, a livello teorico consiste nel ripensare la società, guardarla nella sua multidimensionalità: è vero che la popolazione si riduce e invecchia, ma diventa più sana, più istruita, più colta. Quindi il potenziale è lì da qualche parte. Una volta che c’è questa consapevolezza si può aggiustare il tiro su tutte le cose che non vanno, come i sistemi pensionistici, che adesso non sono sostenibili perché non si sono mai adattati alla crescita demografica»…” (qui).
Ecco svelato qual’è il messaggio da veicolare ad un mondo imborghesito e morente di “vecchi, sani ed istruiti” che devono avviarsi verso la propria fine ineluttabile lieti e sorridenti, se non fosse che, beffa delle beffe, a mezzo del terribile virus influenzale sars-cov-19, qualcuno tra “chi tira i fili” ha pure deciso di angustiarne gli ultimi giorni a mezzo del terrore mediatico e di provvedimenti restrittivi degni della peggiore tirannia fantascientifica orwelliana! Poco importa osservare come lo studio della demografia non abbia mai costituito una seria preoccupazione per i fantocci nostrani della politica e per coloro che hanno gestito la vita dei cittadini di questa nostra sciagurata nazione. Ma cosa c’entra mai allora la succitata lungimiranza politica di Benito Mussolini (cui le classi politiche governative Italy-ote hanno sempre irriso nel ricordare alcune sue frasi celebri quali “Il numero è potenza”, le stesse classi che si affannano spasmodicamente a siglare accordi economici con quei paesi asiatici ricchi delle braccia di milioni dei loro cittadini-lavoratori, a tutto svantaggio della produzione economica dei sempre più poveri, ma “vecchi, sani e istruiti” Italy-oti!) con l’odierno scempio demografico indotto dalla democrazia antifascista a mezzo della sua criminale azione politica ultrasettantennale? E’ presto detto! Nel 1928, l’allora Capo del Governo italiano, scrisse la prefazione di una nuova edizione del testo “Regresso delle nascite morte dei popoli”, elaborato da un’oscuro scrittore tedesco laureato in legge e sociologia, Richard Kohrer, ma che a sua volta aveva beneficiato di una precedente prefazione nella prima edizione da parte del noto filosofo Oswald Spengler, già autore del famoso “Il tramonto dell’occidente” e ammirato dallo stesso Mussolini, fatto che aveva attirato l’attenzione del Duce e che lo convinse prima a leggere e poi recensire il libro. La “Biblioteca del Covo” vuole proporre di seguito all’attenzione dei suoi lettori il testo integrale di quello scritto mussoliniano, certi che la forza di quelle parole preveggenti a cui siamo stati disabituati in modo colpevolmente premeditato, non potrà lasciare indifferenti coloro che avranno la volontà di sapere leggere e comprendere… Buona Lettura!
IlCovo
PREFAZIONE DI MUSSOLINI
Non conosco personalmente l’autore di questo libro, nè lo conoscevo di fama, prima che mi capitasse sott’occhio un fascicolo dei Süddeutsche Monathshefte (Quaderni mensili della Germania Meridionale) contenente — prefazionato da Osvaldo Spengler — sotto forma di opuscolo, quello che oggi, ampliato e riveduto, io presento come volume al pubblico italiano e in particolar modo al pubblico fascista. Chi sia Osvaldo Spengler è noto agli studiosi che hanno seguito le ultime espressioni del pensiero politico e filosofico tedesco. La sua opera Untergang des Abendlandes (Decadenza dell’Occidente) è stata a suo tempo oggetto di vivo interessamento e di non meno vive polemiche. Il Dott. Riccardo Korherr, è un bavarese di Regensburg di modeste origini che ha fatto i suoi corsi universitari in legge e sociologia a Monaco ed Erlangen. Giovane, egli è nato nel 1903, potrebbe già aspirare ad una cattedra universitaria, ma egli vi ha rinunziato per essere, com’egli stesso mi scrive, « più libero nella lotta che intende condurre in difesa della civiltà occidentale, minacciata da un complesso di idee mendaci che vanno dalla fratellanza universale, alla felicità dei più, dall’edonismo pacifondaio al controllo delle nascite ». Questo libro è un episodio di tale battaglia. Per coloro che hanno meditato sui fenomeni demografici nei tempi passati e presenti, il libro stesso non apporta lumi speciali. Ci sono qua e là delle inesattezze, almeno per quanto concerne l’Italia, come dimostrerò fra poco. Ma il libro è destinato al grande pubblico, facile vittima dei pregiudizi edonistici orpellati spesso di falsa scienza e, dato questo scopo, il libro, per la sua esposizione drammatica, per i suoi richiami storici, per i suoi riferimenti al mondo contemporaneo, per la sua ampia documentazione statistica, è di una potente efficacia. La dimostrazione che il regresso delle nascite attenta in un primo tempo alla potenza dei popoli e in successivi tempi li conduce alla morte, è inoppugnabile. Anche le varie fasi di questo processo di malattia e di morte, sono esattamente prospettate e hanno un nome che le riassume tutte: urbanesimo o metropolismo, come dice l’autore.
Aumento patologico
A un dato momento la città cresce morbosamente, patologicamente, non, cioè, per virtù propria, ma per un apporto altrui. Più la città aumenta e si gonfia a metropoli, e più diventa infeconda. La progressiva sterilità dei cittadini è in relazione diretta coll’aumento rapidamente mostruoso della città. Berlino che in un secolo è passata, da centomila, a oltre quattro milioni di abitanti, è, oggi, la città più sterile del mondo. Essa ha il primato del più basso quoziente di natalità non più compensato dalla diminuzione delle morti. La metropoli cresce, attirando verso di sè la popolazione della campagna, la quale, però, appena inurbata, diventa — al pari della preesistente popolazione — infeconda. Si fa il deserto nei campi; ma quando il deserto estende le sue plaghe abbandonate e bruciate, la metropoli è presa alla gola: nè i suoi commerci, nè le sue industrie, nè i suoi oceani di pietre e di cemento armato, possono ristabilire l’equilibrio oramai irreparabilmente spezzato: è la catastrofe. La città muore, la nazione — senza più le linfe vitali della giovinezza delle nuove generazioni — non può più resistere — composta com’è oramai di gente vile e invecchiata — a un popolo più giovane che urga alle frontiere abbandonate. Ciò è accaduto. Ciò può ancora accadere. Ciò accadrà e non soltanto fra città o nazioni, ma in un ordine di grandezze infinitamente maggiore: la intera razza bianca, la razza dell’Occidente, può venire sommersa dalle altre razze di colore che si moltiplicano con un ritmo ignoto alla nostra. Negri e gialli sono dunque alle porte?
Le razze prolifiche
Sì, sono alle porte e non soltanto per la loro fecondità ma anche per la coscienza che essi hanno preso della loro razza e del suo avvenire nel mondo. Mentre, ad esempio, i bianchi degli Stati Uniti, hanno un miserevole quoziente di natalità — che sarebbe ancora più miserevole, se non vi fossero le iniezioni di razze ancora prolifiche come gli irlandesi, gli ebrei, gli italiani — i negri degli Stati Uniti sono ultra fecondi e ammontano già al totale imponente di quattordici milioni, cioè a un sesto della popolazione della Repubblica stellata. C’è un grande quartiere di New York, Harlem, popolato esclusivamente di negri. Una grave rivolta di negri scoppiata nel luglio scorso in detto quartiere, fu a stento domata, dopo una notte di conflitti sanguinosi, dalla polizia, che si trovò di fronte masse compatte di negri. Che cosa può significare nella storia futura dell’Occidente, una Cina di quattrocento milioni di uomini, accentrati in uno Stato unitario? E venendo più vicino a noi che cosa può significare per il resto d’Europa la Russia, il cui quoziente di natalità è altissimo, tanto che — malgrado guerre, epidemia, bolscevismo, carestia, esecuzioni in massa — la popolazione della Russia si aggira oggi sui 140 milioni di abitanti? Le campane d’allarme squillano. Coloro che vedono un po’ più in là della quotidiana contingenza (a mio avviso non ha diritto di governare una Nazione chi non sia capace di guardare almeno a 50 anni di distanza), sono preoccupati.
Situazioni europee
Nella Nazione più industriale e mercantile dì Europa, la Gran Brettagna, si invoca da studiosi e da politici un « ritorno alla terra ». Ma come portare alcuni, soltanto alcuni dei molti milioni di londinesi ammucchiati nella metropoli, di nuovo verso le campagne? Si può fare il cammino a ritroso? Il Ministero dell’Agricoltura risponde con una nota di pessimismo. Negli ultimi venti mesi la terra arata è diminuita di altri 80 mila ettari, il che significa una diminuzione di oltre 200 mila quintali, nel già esiguo raccolto di grano valutato a 1 milione e 200 mila quintali. Dunque Londra cresce, ma si fa il deserto nelle campagne inglesi. E’ noto che nel 1927 l’Inghilterra ha superato Francia e Germania come minimo di natalità. Anche nelle belle feconde pianure di Francia il deserto guadagna — ironico e tragico bisticcio di parole! — guadagna terreno perchè l’urbanesimo sterile ha — per nutrirsi! — spopolato e devastato i villaggi ed i casolari. Ecco un vero grido di angoscia, lanciato recentemente da Giuseppe Barthelemy, membro dell’Istituto di Francia. « Noi sappiamo che vi sono oggi in Francia — egli scrive — due volte più stranieri di prima della guerra: un milione nel 1911, due milioni e mezzo nel 1926; ciò rappresenta il sei per cento della popolazione totale. Su cento abitanti della Francia, ve ne sono sei che non sono francesi. E’ una proporzione impressionante. Dal 1918 al 1926 sono stati introdotti in Francia 853 mila lavoratori dell’industria e 600 mila contadini, ciò che rappresenta un totale di un milione e mezzo di individui. Secondo le nostre vecchie statistiche del 1922, gli stranieri avevano già in mano 333.800 ettari dì terra, di cui 90.500 erano loro proprietà, mentre occupavano il resto con mezzadri e contadini. Nel 1926 l’Italia ha fornito il 18 per cento dell’importazione della mano d’opera. Non vi sono dunque abbastanza francesi per coltivare la terra di Francia. E’ un fatto. Noi abbiamo troppa terra per le nostre braccia. L’Italia ha troppe braccia per la sua terra. Che cosa val meglio? E’ la scelta tra la gioventù, la vitalità, la fecondità da una parte e dall’altra l’età matura, l’età troppo matura, che annunzia la senilità, « L’emigrazione — diceva Mussolini nel 1924 — deve essere considerata non come un fenomeno doloroso di miseria e di debolezza, ma come un problema morale e politico di forza ». Identiche preoccupazioni affiorano negli elementi responsabili della politica belga di fronte al declino progressivo delle nascite. Anche la Svizzera, accusa lo stesso morbo, cogli stessi fatali effetti. Il Vaterland del 21 agosto u. s., giornale conservatore di Lucerna, getta un grido di allarme per la diminuzione della natalità in Svizzera. « La verità che balza limpida agli occhi di chi non si contenta di vivere alla giornata — dice il giornale è questa: « La Svizzera è in preda ad un lento moto di disgregazione e di decadimento ». Da una tabella statistica risulta che le nascite che nel 1901 erano 29 per ogni mille abitanti sono discese nel 1926 a 18.2, mentre la Francia in questo stesso anno ne aveva ancora 18.8 e l’Italia 27.2. « Non c’è che dire: siamo ormai al disotto della Francia — prosegue il Vaterland — ; nè è motivo di alcun sollievo il vedere che qualche altra nazione è scesa più in basso della nostra media perchè le cifre prese a sè sono di una terribile gravità. Esse dicono che siamo ormai al limite estremo, oltre il quale è scritta la condanna a morte di una nazione; nè il moto accenna a rallentare ». Come si vede, l’ansietà è dovunque diffusa.
Tesi false
Basta questo, a fare giustizia di tutte le assurde pseudo scientifiche 0 filosofiche vociferazioni dei neo-maltusiani. Nessuno, oggi, prende più sul serio la famigerata sedicente legge di Malthus. Ci si domanda come si possa ancora seriamente discutere attorno a questa specie di « patacca » scientifica. E’ stato dimostrato che prendendo a punto di partenza la popolazione esistente sulla faccia della terra all’epoca di Malthus e applicando la legge di Malthus a ritroso nei secoli, si giungerebbe a questa mirabolante nonché grottesca conclusione: che ai tempi dell’Impero romano la terra non aveva abitanti! Falsa è la tesi che la qualità possa sostituire la quantità, tesi che io ho ribattuto energicamente non appena fu avanzata quasi a giustificazione della purtroppo progressiva flessione della natalità italiana; falsa ed imbecille è la tesi che la minore popolazione significhi maggiore benessere: il livello di vita degli odierni 42 milioni di italiani è di gran lunga superiore al livello di vita dei 27 milioni del 1871 0 dei 18 del 1816. Vero è, invece, che i benestanti sono i meno prolifici — fenomeno di egoismo morale, dunque! — Vero è, invece, che le famiglie più deserte di bambini sono quelle che non soffrono penuria di ambienti. Di queste e di altre consimili « falsità » pseudo scientifiche fa efficacemente tabula rasa l’autore di questo volume. Il quale autore cade, però, come dicevo, in alcune inesattezze per ciò che concerne l’Italia. Se il Dott. Korherr farà un viaggio in Italia si convincerà: a) che non è vero che le campagne, del Piemonte, Lombardia, Toscana, Romagna, Sicilia siano in particolare decadenza demografica; b) che non è vero che i negri si spingano sino in Sicilia. E’ vero invece — nettamente — il contrario. E’ vero cioè che i Siciliani si sono piantati in masse numerose e compatte nell’Africa Romana mentre in Sicilia di gente di colore non ci sono che mezza dozzina di deportati senussiti e di origine semita.
Situazione dell’Italia
Ma qual’é, a prescindere da questi particolari, la situazione dell’Italia della quale Spengler si occupa, elogiando le prime fasi della mia politica demografica, riassumentesi nella formula netta chiara vitale: massimo di natalità, minimo di mortalità? Sino al maggio del 1926, sino al mio discorso che per mera coincidenza cronologica fu chiamato dell’Ascensione, gli italiani furono vittime del luogo comune della « loro straripante natalità ». Toccò a me di spezzare, al pari di altri, anche questo luogo comune. La verità è diversa ed è triste; anche in Italia diminuiscono le nascite; anche l’Italia soffre del male comune alle altre Nazioni Europee. Coloro che hanno una specie di abito mentale ottimista osservano tuttavia che il decorso della malattia in Italia sembra benigno. Anche questo è un luogo comune e basterà per eliminarlo, esaminare le cifre nel loro totale e nella loro composi zione. Cominciamo dai totali. Il massimo coefficiente di natalità si ebbe nel quadriennio 1881-1885 con 58 nati per ogni mille abitanti. Poi cominciò la discesa lenta, ma continua. Le fasi di questa discesa ognuno può vederle nella apposita Tavola del Bollettino dell’Istituto Centrale di Statistica. Nel 1915, all’atto della guerra, il quoziente di natalità è già al 30.5 per mille. In trent’anni circa abbiamo perduto otto punti. Nello stesso periodo il quoziente di mortalità scende dal 27 al 20 per mille: non arriva, cioè, nemmeno a compensare la diminuita natalità. Gli anni di guerra ed il 1919 seguito immediatamente, non possono dirci gran che. Nel 1920 il quoziente di natalità si spinge a 31.8 per mille, con una mortalità del 18.8 per mille: il quoziente di eccedenza dei nati sui morti è del 13.1 per mille. Il più alto che si sia registrato dal 1870 in poi. Ma dopo questa punta comincia il movimento regressivo, che giunge al quoziente di 26.9 per mille nel 1927. Mentre per perdere otto punti ci sono voluti prima della guerra trent’anni; sono bastati sette del dopoguerra a farne perdere quattro.
Città e campagne
Il moto di diminuzione non è soltanto progressivo ma si accelera ogni anno di più. Nei primi sei mesi del 1928 le nascite sono diminuite in cifra assoluta di oltre 11 mila nei confronti del 1927; con questo fatto aggravante, che si è verificato una specie di crollo in quelle provincie dell’Italia meridionale che sembravano ed erano il vivaio demografico della Nazione. Il solito ostinato ottimista potrà osservare che la proporzionale diminuzione della mortalità compensa la diminuita natalità e che in ogni caso un coefficiente del 26.9 per mille, è confortante. Tanto è vero che la popolazione italiana è aumentata al netto di 414 mila abitanti nel 1926, di 457 mila nel 1927; di 239 mila nei primi sei mesi del 1928. L’ostinato ottimista è pregato di seguirmi nell’esame più intimo delle cifre, e gli farò vedere quale spaventosa agonia demografica si nasconde sotto il coefficiente globale del 26.9 per mille. Questo coefficiente lo si deve esclusivamente alla prole dei rurali. Tutta l’Italia cittadina 0 urbana è in deficit. Non solo non c’è più equilibrio, ma i morti superano i nati. Siamo alla fase tragica del fenomeno. Le culle sono vuote ed i cimiteri si allargano. Tutte le Città dell’Italia Centrale e Settentrionale accusano lo stesso deficit. Ma una città particolarmente cara al Fascismo italiano sembra detenere il lamentevole primato: Bologna. Basterà enumerare queste cifre che non hanno bisogno di commenti: « dal 1872 al 1927 un periodo cioè di 55 anni si sono avuti in Bologna 2658 nati vivi in più dei morti, con una media annua di 48 0 poco più! (Il Resto del Carlino del 31 luglio ’28). Bologna ha quasi raddoppiato nello stesso periodo di tempo la sua popolazione, rarefacendo la popolazione rurale della provincia, che, per fortuna, è ancora feconda. Nulla di più umiliante che leggere i bollettini quotidiani dello Stato Civile di Bologna che accusano quasi invariabilmente il doppio dei morti sui vivi! Anche nell’altra grande limitrofa città emiliana, Ferrara, si passa da 1312 nati in più nel 1923 a soli 731 nel 1927: una diminuzione del 50 % in quattro anni! Nè migliori sono le condizioni di tutte le altre città padane: da Parma a Mantova, da Cremona a Modena. A Firenze i vivi compensano a malapena i morti; quindi aumento naturale della popolazione: zero. In una situazione analoga 0 poco diversa si trovano gli altri centri urbani della Toscana. A Genova nei primi quattro mesi del 1928 i nati sono stati 3075, ma i morti 3338; quindi la popolazione è diminuita di ben 263 unità! A Torino la popolazione diminuisce regolarmente da 5 anni a questa parte! E Milano? Nel supplemento alla Rivista Città di Milano del giugno 1928 e riferente i dati complessivi del I927, leggo queste parole sinistre « La natalità milanese è una delle più basse dei grandi centri urbani, superiore solo a Berlino e a Stoccolma ». Il fiero e nobile senso di civismo degli Ambrosiani si è dunque rassegnato a questo mortificante primato di decadenza e di morte? Vogliono dunque essi che in un avvenire più 0 meno lontano, Piazza del Duomo, come già nel buio medioevo il Campidoglio, diventi luogo di pascolo per gli armenti? N0. Questo i Milanesi non vogliono. Questo i Milanesi non possono volere. Qualche chiarore rompe il grigio della loro situazione demografica. Si delinea una ripresa. I nati-vivi in più che furono la miseria di 295 nel primo semestre del 1926; salirono a 728 nel primo semestre del 1927; sono aumentati ancora a 1148 nel primo semestre del 1928. La tendenza al miglioramento c’è: segnaliamola agli italiani — come sintomo confortante — così come la radio inglese di Rugby ha il 22 agosto u. s. annunciato a tutto il mondo un leggerissimo miglioramento della situazione demografica inglese nei primi mesi del ’28.
Le leggi e lo spirito
Non voglio trarre conclusioni affrettate dalla lieve ripresa milanese. La mia politica demografica non può avere dato ancora i suoi frutti. Ma qui si pone il problema. Le leggi demografiche — che in ogni tempo legislatori di ogni paese adottarono per arrestare il regresso delle nascite — hanno avuto 0 possono avere una efficacia qualsiasi? Su questo interrogativo si è discusso animatamente e si continuerà a discutere ancora. La mia convinzione è che se anche le leggi si fossero dimostrate inutili, tentare bisogna, così come si tentano tutte le medicine anche e soprattutto quando il caso è disperato. Ma io credo che le leggi demografiche — e le negative e le positive — possono annullare o comunque ritardare il fenomeno, se l’organismo sociale al quale si applicano è ancora capace di reazione. In questo caso più che le leggi formali vale il costume morale e soprattutto la coscienza religiosa dell’individuo. Se un uomo non sente la gioia e l orgoglio di essere « continuato » come individuo, come famiglia e come popolo; se un uomo non sente per contro la tristezza e l’onta di morire come individuo, come famiglia e coma popolo, niente possono le leggi anche, e vorrei dire soprattutto, se draconiane. Bisogna che le leggi siano un pungolo al costume. Ecco che il mio discorso va dirittamente ai fascisti e alle famiglie fasciste. Questa è la pietra più pura del paragone alla quale sarà saggiata la coscienza delle generazioni fasciste. Si tratta di vedere se l’anima dell’Italia fascista è o non è irreparabilmente impestata di edonismo, borghesismo, filisteismo. Il coefficiente di natalità non è soltanto l’indice della progrediente potenza della Patria, non è soltanto come dice Spengler, « l’unica arma del popolo italiano », ma è anche quello che distinguerà dagli altri popoli, europei, il popolo fascista, in quanto indicherà la sua vitalità e la sua volontà di tramandare questa vitalità nei secoli. Se noi non rimonteremo la corrente, tutto quanto ha fatto e farà la Rivoluzione fascista, sarà perfettamente inutile perché, ad un certo momento, campi, scuole, caserme, navi, officine non avranno più uomini. Uno scrittore francese che si è occupato di questi problemi ha detto: per parlare di problemi nazionali occorre in primo luogo che la Nazione esista. Ora una Nazione esiste non solo come storia o come territorio, ma come masse umane che si riproducono di generazione in generazione. Caso contrario è la servitù o la fine. Fascisti italiani: Hegel, il filosofo dello Stato, ha detto: Non è uomo chi non è padre! In una Italia tutta bonificata, coltivata, irrigata, disciplinata: cioè fascista, c’è posto e pane ancora per dieci milioni di uomini. Sessanta milioni d’italiani faranno sentire il peso della loro massa e della loro forza nella storia del mondo.
I° Settembre,1928, VI.
(estratto da “Regresso delle nascite morte dei popoli”, Roma a XV, società anonima A.T.E.N.A., pp. 7-23)