Il libro di Antonio Esposito*, “Giuristi e Stato Corporativo”, risulta decisamente interessante, sia per il tema trattato che per la forma utilizzata. L’argomento è oggetto di grande dibattito negli ultimi tempi, soprattutto in ambito politologico. Sebbene il titolo e gli antefatti possano lasciar pensare ad una disamina esclusivamente giuridico-istituzionale dello Stato Fascista, il testo in realtà parte dal dato giuridico per arrivare ad una interpretazione sia dell’identità che delle potenzialità politiche, espresse o meno, dal Regime Fascista. Questo, di per sé, non risulta un elemento necessariamente negativo. Riteniamo infatti che il legame tra la Dottrina politica fascista, e le Leggi (oltreché le istituzioni) poste in essere nel “ventennio”, sia indiscutibile. Il valore di questo legame è dibattuto, la ricerca di Esposito si inserisce proprio in questo dibattito.
Partiamo dunque dal considerare l’argomento del libro ed il suo svolgimento. Il saggio si presenta snello, di facile lettura, nonostante il tema sia dei più complessi, con un buon equilibrio tra sintesi espositiva e chiarezza documentaria. Esso ha il merito di considerare alcuni elementi (ancora in discussione a livello accademico), come dati acquisiti: a) la natura alternativa della Rivoluzione Fascista; b) il valore “Costituzionale”, ovvero di costituzione di un Nuovo Stato rispetto a quello monarchico preesistente, delle leggi varate dal Regime; c) il riconoscimento della “omogeneità della cultura fascista” e conseguentemente il concorso unitario degli ideologi fascisti alla nuova Costituzione.
Le nostre perplessità, però, sorgono fortemente quando l’autore trae le proprie conclusioni in merito agli argomenti esaminati. Innegabilmente egli focalizza l’attenzione su Alfredo Rocco, considerato giustamente un personaggio cardine nell’attuazione del nuovo Stato fascista. Altro punto giustamente evidenziato come nodale, risulta la promulgazione della “Carta del Lavoro”, definita a ragione come documento fondamentale della “Nuova Costituzione”, addirittura quale “nuova Carta universale”, da anteporre a quella “dei diritti”. Lo stesso discorso vale in merito ad altri importanti personaggi del Regime, ideologi fascisti, quali Bottai e Costamagna. Nulla da eccepire a riguardo. Dissentiamo, invece, in merito all’interpretazione che egli fornisce sia del Regime, che del Fascismo, quale idea che ne ha animato tutti i propositi, tanto in campo giuridico che politico e sociale. L’Autore, infatti, sembra voler guidare il lettore in una interpretazione “Corporativa” della Rivoluzione Fascista, precisamente elevando tale aspetto a essenza primaria e peculiare dell’identità politica specifica del regime mussoliniano. Lo fa quando definisce lo Stato Fascista quale “Stato Sociale” (termine usato in ambito Liberale, il cosiddetto WelFare), identificando (secondo noi erroneamente!) la sua sostanza e il suo scopo principale nel raggiungimento di un modello di Stato “Corporativo”. Uno “Stato Sociale” che costituirebbe lo “sbocco” ultimo della parabola politica Fascista, e soprattutto rappresenterebbe l’obiettivo principale prefissato dal P.N.F., che in tale opera avrebbe beneficiato delle deficienze organizzative dell’Italia liberale, per colmare sia le lacune dell’imbelle Stato monarchico, sia le esigenze di “modernizzazione” emerse nelle società di massa del XX secolo. Tale risulta l’interpretazione che va per la maggiore negli ambienti accademici che si rifanno a Renzo De Felice ed ai suoi allievi più illustri, come Emilio Gentile, Giuseppe Parlato e Francesco Perfetti, le cui tesi l’autore mostra di conoscere e condividere. Un altro elemento sul quale dissentiamo è quello inerente ciò che Esposito chiama “deriva Totalitaria” del fascismo, posta in essere per primo da Rocco. L’autore ritiene che l’obiettivo dello “Stato Sociale” (leggasi “Corporativo”), inizialmente fosse perseguito in modo “mediato” in virtù del metodo usato dal primo governo Mussolini, in cui erano presenti nomi di “illustri politici” dell’Italia prefascista, per poi essere realizzato in modo “immediato”, a mezzo dell’impianto giuridico elaborato da Rocco prima, e poi da Costamagna. Altresì egli ritiene che tale “deriva”, concretizzatasi a causa di contingenze storiche che avrebbero determinato tale “svolta totalitaria”, avrebbe rappresentato un fattore negativo per la concreta e verace traduzione in pratica del “Corporativismo”, che in teoria, nella descrizione qui proposta da Esposito, avrebbe dovuto costituire il vero obiettivo e la principale “eredità politica” che il Fascismo avrebbe dovuto tramandare alle generazioni future di Italiani. In tale contesto interpretativo la “Carta del Lavoro”, viene pertanto derubricata dall’autore a “documento politico” che non sarebbe propriamente ascrivibile al contesto giuridico dell’instaurando nuovo Stato, poiché le caratteristiche di essa non sarebbero paragonabili a quelle delle leggi “tradizionali”; anzi, tale Carta, il cui valore presumibilmente sarebbe più formale che sostanziale, ideologico più che concretamente programmatico, venne ad essere inserita in un contesto giuridico e istituzionale interpretato come già autonomamente avviato verso l’attuazione del Corporativismo, essa quindi avrebbe costituito più un elemento di “passaggio” da una fase (quella “sindacale”) a un’altra (quella “corporativa”) dello Stato Fascista, piuttosto che un ulteriore pilastro portante nell’edificio giuridico-istituzionale del Regime. Stesso discorso viene portato avanti riguardo quelle che vengono qualificate come “fasi” del Regime, ovvero la già summenzionata fase “sindacale” (cioè il momento in cui l’apporto del sindacalismo avrebbe dovuto ottenere il risultato dell’autonomia che gli sarebbe propria, nonché voce in capitolo nella amministrazione dello Stato, posta come obiettivo primario) e quella “corporativa” (la fase che avrebbe dovuto istituzionalizzare e concretizzare le istanze Sociali nel nuovo Stato, ma che alla fine si sarebbe tramutata nella burocratizzazione di tali richieste), nei riguardi delle quali bisognerebbe separare ciò che venne realizzato dagli obiettivi teorizzati che si volevano raggiungere. La critica dell’Autore, in tal senso, si focalizza principalmente nella mancata concretizzazione della “svolta sindacale” del Regime, oltreché nelle deficienze organizzative dell’ “era Bottai”, il quale, pur ponendosi come “mediatore” tra “sindacalisti e corporativisti”, avrebbe sostanzialmente fallito nel raggiungimento concreto di questa posizione mediana. In tal senso, secondo Esposito, la “fase” in cui fu protagonista Costamagna” avrebbe ripreso e perfezionato l’architettura giuridica di Rocco, rinunciando definitivamente al primato dell’istanza sindacale, che pure uomini come Panunzio, egli sostiene criticando tale posizione, inspiegabilmente si “ostinavano” (sic!) a credere praticabile all’interno delle Istituzioni gerarchiche centraliste del Regime, ritenendo invece assolutamente armoniche le istanze sindacali stesse con la concezione dello Stato Fascista. Si arriva così a specificare, in ultima analisi e a conclusione della disamina giuridico-istituzinale del Regime, che la vera e reale “Terza via”, a cui il Fascismo presumibilmente aspirava, sarebbe da identificare nella “Legge sulla Socializzazione delle Imprese”, idea che pure era stata vaticinata da Ugo Spirito nel suo principio della “Corporazione Proprietaria”. Anche in questo caso c’è da rilevare la giusta considerazione dell’autore del saggio in merito alla “connaturalità” della Socializzazione all’idea Corporativa Fascista. Ciò che invece non è assolutamente condivisibile verte sulla “centralità ideologica” che l’Autore stesso affida a tale provvedimento, secondo il quale incarnerebbe l’identità “vera” del Fascismo ed il suo obiettivo fondamentale, tra l’altro non raggiunto. L’Esposito, infatti, pur non volendo annoverare il Fascismo nelle “rivoluzioni mancate” o “incompiute”, lo colloca sicuramente tra i “fallimenti politici”, dovuti a quelle che egli reputa le molteplici cause da lui elencate nel testo.
Quel che riteniamo difetti in tale lavoro, è esattamente la considerazione del Fascismo quale DOTTRINA politica chiara e univoca, condivisa consapevolmente e senza riserve dai suoi teorici principali (a prescindere dalla formazioni filosofica e politica da cui essi provenivano) che dunque, in quanto tale, andrebbe considerata sempre quale principio e fine di ogni provvedimento preso dal Regime. A livello ideologico, proprio quel che l’Autore non sembra ritenere in linea con quel che egli considera il presunto obiettivo corporativo Fascista, venne invece ritenuto essenziale e perciò definito strettamente dagli ideologi fascisti, anche quelli che egli ritiene in polemica insanabile (vedasi Panunzio e Costamagna). Infatti, è ormai sufficientemente dimostrato che tali polemiche (come constatato anche da Alessandra Tarquini nel suo lavoro sulla cultura fascista, non certo tacciabile di faziosità apologetica) vertevano più sui metodi che non sul fine politico da raggiungere, che per tutti costoro era costituito dall’inveramento della nuova Civiltà Fascista, una civiltà Spirituale nella quale il “Bene Comune” doveva necessariamente essere prioritario e superiore tanto rispetto all’interesse individuale quanto a quello di categoria economica e sociale. Nella produzione ideologica di tutti i teorici del Partito Fascista, a partire da Mussolini, per proseguire con Gentile, Carlini, Rocco, Panunzio, Costamagna, Giani, Spinetti, ecc., emerge con prepotente chiarezza tale concezione. In tale direzione vanno inequivocabilmente le realizzazioni codificate da Rocco (con la giusta gradualità, come pure l’Esposito non manca di rilevare), come quelle di Bottai (al netto delle deficienze organizzative), e di Costamagna. Il “Corporativismo Fascista” (e sottolineiamo “fascista”, poiché presenta peculiarità che lo rendono differente dagli altri esperimenti similari), non è, né può essere confuso col “Sindacalismo Rivoluzionario”. In quanto tale, nell’ortodossia dottrinaria fascista, risulta sempre essere stato considerato come un mezzo, per quanto certamente innovativo e all’avanguardia, volto alla realizzazione dello Stato Etico-Organico Fascista. In questa prospettiva è naturale e assolutamente inevitabile, che esso esprimesse la propria peculiare anima totalitaria Etico-Gerarchica, che di certo, a parer nostro, non è rappresentabile come una “deriva” dovuta a fatti contingenti (o alla formazione politica di provenienza degli uomini che l’hanno attuata), ma che si concretizzò obbligatoriamente per meglio “dirigere e controllare” tutti gli ambiti della Nazione, qualificata significativamente al principio della “Carta del Lavoro” come “unità morale, politica, ed economica che si realizza integralmente nello Stato fascista”. In tale contesto, dunque, il “Totalitarismo” non costituisce per nulla un “effetto negativo” del presunto “inopportuno” accentramento Statale. Esso invece risulta connaturato all’Idea Fascista, che ebbe sempre la pretesa di rappresentare non un nuovo “abito” da indossare sulla preesistente impalcatura dello Stato monarchico-liberale, bensì una vera e propria Rivoluzione finalizzata ad instaurare una nuova “Civiltà”! Ciò vale anche per la Legge sulla socializzazione delle imprese, che non costituisce affatto la “vera Terza Via”, ma esclusivamente un mezzo, anche quello, che attua in modo peculiare esattamente l’articolo 1) della Carta del Lavoro! A sua volta, tale provvedimento, non costituisce affatto la traduzione in essere dell’ idea di “Corporazione proprietaria” espressa da Spirito, poiché anche questa presenta delle differenze non piccole con la legge suddetta, che andrebbero appositamente studiate in altra sede.
In breve, il Fascismo nella sua più schietta e genuina essenza politica non può essere semplicisticamente rappresentabile, come sembra sostenere Esposito, quale sviluppo particolare del Sindacalismo Rivoluzionario, tantomeno ridotto esclusivamente a mero propugnatore delle teorie sociali sindacaliste nazionali, sebbene, indubbiamente ne sviluppasse alcune istanze. Al contrario, esso rappresentò nel pensiero dei suoi ideologi ufficiali un’idea nuova, con degli obiettivi chiari e ben definiti. Non ci pare corretto sostenere che esso si sia sviluppato in modo originale quale percorso politico al fine di pervenire semplicemente ad una nuova forma dei rapporti socio-economici, che avrebbe avuto presumibilmente il compito di correggere le disfunzioni del modello liberale, poiché invece esso si propose di realizzare una vera e propria nuova Civiltà dello Spirito, tale e quale venne descritta con i medesimi tratti distintivi da tutti i suoi ideologi più rappresentativi, giuristi, filosofi, sindacalisti ed economisti, indipendentemente dalla formazione specifica di ognuno di essi ! In tal senso, è bene sottolineare che le conclusioni presenti nei nostri studi (vedi qui ) vanno esattamente nella direzione opposta di quelle presentate da Esposito nel suo saggio.
*Antonio Esposito, nato a Napoli il 10 Febbraio del 1987, ha frequentato la facoltà di Giurisprudenza presso l’Università di Napoli Federico II, dove ha conseguito la laurea nel luglio del 2015 con una tesi sulla Carta del Lavoro.
Gentili Stefano Fiorito – Marco Piraino.
Preliminarmente vi ringrazio per la recensione del mio saggio. Mai mi sarei aspettato un lavoro così ben fatto e una disamina tanto approfondita e dettagliata del testo, che sicuramente sarà per me fonte e occasione di ulteriori ricerche e approfondimenti.
Nel contempo, tuttavia, mi duole apprendere che la mia poca chiarezza espositiva possa aver cagionato così tanti fraintendimenti.
In particolare non sono d’accordo con questa frase:
“L’Esposito, infatti, pur non volendo annoverare il Fascismo nelle “rivoluzioni mancate” o “incompiute”, lo colloca sicuramente tra i “fallimenti politici”, dovuti a quelle che egli reputa le molteplici cause da lui elencate nel testo.”
Personalmente non ho mai preso in considerazione l’idea che il Fascismo potesse essere classificato come “fallimento politico”, ma è tuttavia evidente che l’equivoco è stato generato da una frase, forse dal significato ambiguo:
: “L’evidente discrepanza tra la maestosità dei progetti e la modestia dei risultati portarono lo stesso Bottai a dubitare della volontà del regime di attuare un vero e proprio programma corporativo, cioè di quella caratteristica peculiare che aveva fatto del fascismo una “Rivoluzione totale” e che, a posteriori, poteva esse considerata una “Rivoluzione mancata” (Op. cit. p. 111).
In prima battuta ci tengo a precisare che l’obbiettivo corporativo fu comune più o meno a tutti i giuristi, costituzionalisti e non (militanti e non), quello che rileva però sono le differenti “strategie di attuazione” che si sono susseguite.
Tant’è che “L’evidente discrepanza tra la maestosità dei progetti e la modestia dei risultati ” si riferisce solo ed esclusivamente al “corporativismo di Bottai” e non al progetto corporativo in quanto tale. Risultati che “portarono lo stesso Bottai a dubitare della volontà del regime di attuare un vero e proprio programma corporativo”, perché lo scrive lui stesso nei suoi diari.
Ritengo, infatti, che non si possa che considerare fallimentare solo ed esclusivamente l’impostazione corporativa di Bottai, formata da organi istituzionali enormi e per niente funzionanti, come il Consiglio Nazionale delle Corporazioni.
Ed è per questo che critico fortemente la visione della “rivoluzione mancata” del Pellizzi in quanto si concentra esclusivamente sul “corporativismo bottaiano” senza prendere in considerazione le altre impostazioni.
Infatti, a mio modesto avviso, il sistema corporativo fu un impianto “pienamente attuato” attraverso l’impostazione di Rocco ( e poi Costmagna), cioè attraverso la legislazione civile (in particolare il nuovo codice civile) e la carta del lavoro (come carta costituzionale).
La precisazione era d’obbligo.
Grazie
Pubblichiamo volentieri la sua precisazione, gentile Sig. Esposito.
Ci teniamo a sottolineare, comunque, che il punto (per quanto ci riguarda), al netto delle chiarificazioni o degli approfondimenti sulla materia, sta esattamente nella corretta identificazione del Fascismo (e del Regime), quale sistema Etico-Organicistico (vedi Totalitario). In questo modo, l’opera di Bottai, che pure ha avuto fasi alterne, non è (a nostro avviso) scindibile dall’Opera Etico-Organica del Regime stesso. Egli, come gli altri uomini del Sistema Fascista, attuava un programma Totalitario più vasto, e decisamente orientato a una realizzazione graduale ma precisa. Così risulta chiaro che, sebbene a posteriori (dopo la sconfitta militare) si siano “manifestate” delle “anime” interne al regime, ciò non era e non è consentito dalla Dottrina Fascista, come anche dal Regime stesso che la attuava progressivamente. Il nocciolo è tutto in questa interpretazione. Organica o pluralistica? Totalitaria o Paternalistica? Spirituale o Praticistica? Noi crediamo di aver dato una risposta esauriente in merito. E orientiamo la nostra critica esattamente in questa direzione.