La crisi europea ha mille facce ed il considerarla da un solo lato, come fanno i filosofi e gli economisti, costituisce una forma particolare di miopia politica ed economica. L’esaurimento della civiltà europea, ha senza dubbio le sue origini ideali nel decadere del dogma religioso, determinato dalla Riforma e dall’affermarsi di un esasperante razionalismo politico, attraverso la rivoluzione francese, ma, a questi fattori ideali, il secolo XIX ha aggiunto il decadere della proprietà terriera e dell’agricoltura e l’affermarsi del capitalismo industriale. L’Europa, spinta da queste forze nuove, è andata tanto oltre nella propria smania di raziocinio e di ricchezza, da portare la civiltà al di là delle mete del possibile e verso la incognita dell’irrazionale e del metafisico. Lo sviluppo del capitalismo europeo attraverso l’industria è avvenuto in forma tanto repentina, quasi violenta, da non trovare spesso, più capienza entro i limiti dello Stato e del continente. Nel secolo XIX il capitale, saturato il mercato europeo, ha dovuto cercare oltremare i nuovi mercati di vendita e di impiego. Finché, gli Stati consumatori oltre-oceanici non si sono essi stessi attrezzati in senso industriale, fino ad emanciparsi dall’industria europea e a trovarsi infine nella necessità di cercare mercati di consumo per i loro prodotti e campi di impiego per il capitale ingigantitosi improvvisamente. L’ondata di produzione e di ricchezza, sprigionatasi dallo sviluppo dell’industria europea, è così ritornata ad infrangersi sulle scogliere dell’Europa ormai prigioniera della tempesta capitalistica da essa stessa scatenata. Rotto l’equilibrio fra produzione e consumo e sbarrati i mercati oltremare, l’alto livello dei guadagni dell’Europa industriale è andato fatalmente diminuendo. Il capitale europeo, che fino a ieri aveva trovato nell’industria la possibilità di moltiplicarsi vertiginosamente con l’aumento continuo della produzione, cui faceva riscontro la sempre maggiore possibilità di smercio e di consumo nei mercati esterni, ha trovato così una battuta d’arresto. Qui sta il nocciolo della crisi economica. La ricerca affannosa di sempre maggiori mercati per il capitalismo, si è dimostrata assurda ed insensata, perché le possibilità di consumo non possono moltiplicarsi all’infinito e finiscono coll’esaurirsi prima o dopo. Il ripudio dell’economia agricola e lo sviluppo del super-capitalismo hanno rinnovato il mito del Re Mida, per cui gli Stati industriali si sono trovati ad avere la ricchezza, ma non il pane. L’industria deve cercare ora di nuovo un effettivo equilibrio ed il capitale non può e non deve più moltiplicarsi in proporzione geometrica, se non vuole scavarsi egli stesso la propria fossa. La distribuzione della ricchezza e del benessere deve trovare una base reale di equità. Lo sviluppo sproporzionato dell’industria, ha fatto della ricchezza rappresentata dall’oro (e dalla finanza speculatrice, N.D.C.) il perno di una civiltà grettamente materialista. E qui sta il punto di fusione tra le forze materiali e quelle spirituali che hanno determinato l’attuale crisi europea. L’egoismo degli individui, delle classi, delle Nazioni e dei continenti, ha distrutto ormai la possibilità di una convivenza pacifica e di una giustizia sociale superiore. Si potrebbe ripetere oggi la definizione che Hobbes dava della civiltà primitiva: Homo homini lupus. La civiltà europea, svincolata dalla morale cattolica, è corsa dietro ad un razionalismo che ha distrutto le basi spirituali che sono la luce del mondo. Ecco perché, pur sotto le strutture economiche, il problema dell’Europa ha un carattere spirituale. Ecco perché, contro una civiltà plutocratica in decadenza, si invoca una civiltà nuova che inquadri, fuori di un equivoco liberalismo, tutti i rapporti fra individuo e individuo, fra individuo e Stato, fra Stato e Stato e che metta il fenomeno economico agli ordini della politica e della morale.
In un paese ad economia mista come l’Italia, dove la ricchezza del materiale uomo fa contrasto con la ristrettezza e con la povertà del suolo, il Fascismo si è assunto il compito di creare una unità nazionale, poggiata sul partito unico, sulla corporazione e sullo Stato totalitario, in cui politica ed economia sono tese ad un unico scopo: quello di creare la possibilità di sviluppo all’individuo ed allo Stato, in una sintesi di più alta giustizia sociale ed internazionale. Il Fascismo, pur sotto il nome di “partito” fu l’anti-partito per eccellenza, rinnegando tutti i sistemi passati della lotta politica, per tendere decisamente alla attuazione di una civiltà nuova. Tra la Rivoluzione dell’89 e la Rivoluzione fascista c’è perciò una sostanziale differenza. La prima esauriva tutti o quasi i suoi fini nel rovesciamento della monarchia assoluta e nella creazione del sistema costituzionale, lasciando gli sviluppi successivi della democrazia al libero e caotico gioco dei partiti e delle contingenze, che trovarono sempre lo Stato impreparato ed incapace di reagire. La Rivoluzione fascista invece, non si è esaurita nella conquista di un governo, ma rappresenta una rivoluzione continua in costante contatto con la realtà politica ed economica della Nazione, capace in ogni momento di prendere saldamente le mani al popolo, per indirizzarlo verso quelle mete, sempre nuove, che lo sviluppo della civiltà e la legge evolutiva della storia presentano allo Stato totalitario. Per questo il Fascismo, contro le idee dell’89, ha bandito il suo trinomio che si compendia in tre principii eterni della civiltà: Autorità, Ordine e Giustizia, fondando su di essi i suoi nuovi istituti politici, economici e sociali. Perciò i partiti, che hanno esaurito la loro funzione politica, sono destinati a morire anche in Europa con l’esaurimento della civiltà borghese, ormai scarsamente aderente alla realtà della politica e della storia. Ciò che manca ai popoli, alle Nazioni ed ai continenti, è l’unità, intesa come fusione spirituale e collaborazione di interessi economici. L’Europa, se vuol salvarsi, deve trovare “un minimum di unità politica”. In mezzo ai fumi delle ideologie materialiste, il Duce intravide una realtà politica, economica e sociale, che doveva valere non solo per una classe o per un popolo, ma per tutte le classi e per tutti i popoli che poggiano la loro civiltà sullo spirito, che è la sola ed eterna espressione di vita. Per questo la concezione mussoliniana ha i requisiti dell’universalità. Il Fascismo ha restaurato in Italia un controllo della produzione e dei consumi, creando così la premessa di un equilibrio economico, che è il solo che consenta la disciplina dei costi e che eviti quella inflazione del capitalismo, nella quale risiede la prima ragione della attuale crisi europea. Il Duce nella sua storica dichiarazione resa il 14 novembre 1933 al Consiglio Nazionale delle Corporazioni definì la corporazione “lo strumento che, sotto l’egida dello Stato, attua la disciplina integrale, organica ed unitaria delle forze produttive, in vista dello sviluppo della ricchezza, della potenza politica e del benessere del popolo italiano”. Il corporativismo, inteso come superamento del capitale e del lavoro, come distribuzione e disciplina della ricchezza, secondo criteri di più alta giustizia sociale ed internazionale deve rinnovare, sul banco di prova europeo, l’esperienza già superata in Italia, dimostrandosi efficace strumento di unità politica ed economica. La crisi del capitalismo, che certamente sarà acuita dalla guerra militare ed economica che oggi si combatte, metterà domani l’Europa dinanzi ad una soluzione corporativa. “Ma per fare del corporativismo pieno, integrale, rivoluzionario occorrono tre condizioni: un partito unico… uno Stato totalitario… una altissima tensione ideale”. Solo una mistica fascista e corporativa può annullare gli egoismi particolari di una civiltà materialista, portando i popoli d’Europa a quella unità politica ed economica che è la sola possibilità di salvezza, posta al limite fra la civiltà millenaria di Roma e le barbarie di Mosca. La crisi dello Stato borghese ha posto l’Europa demo-liberale dinanzi alla possibilità di due soluzioni, l’una sovietica e l’altra fascista, che vogliono significare entrambe la fine della borghesia come classe dirigente. In mezzo a queste due soluzioni — Stato operaio internazionale e Stato totalitario nazionale — ogni tentativo dello Stato borghese di trovare un compromesso con i propri affossatori, non poteva essere che equivoco e vano. Il partito unico come arma rivoluzionaria, in Russia con i Soviet, in Italia con il Fascismo, presenta la soluzione opposta del problema sorto dalla dissoluzione dell’autorità borghese e dall’incapacità dei partiti di aderire alla realtà. Ma, mentre il partito unico in Russia, negando l’esperienza sociale ed economica della civiltà europea, ha puntato verso il livellamento delle classi, in un unico proletariato internazionale di là da venire, al di sopra degli Stati, delle Nazioni e dei continenti, il Partito unico in Italia, si fonda sulla realtà storica della Nazione, delle classi e degli interessi europei, per trarne un armonia politico-economica. Mentre per il Fascismo la civiltà europea è considerata come una continua rivoluzione dello spirito, il concetto della rivoluzione continua è negato al bolscevismo. Esso infatti, con la distruzione del capitalismo e della borghesia, mira ad una cristallizzazione classista. La guerra attuale, in cui materia e spirito, mito e realtà si confondono e si combattono, schiuderà le porte al Fascismo. Per gli stati borghesi e plutocratici sarà, senza dubbio, la morte. Per la civiltà europea sarà una rivoluzione ideale. (Estratto da “Il Fascismo nella crisi d’Europa”, Ancona, 1941)
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IlCovo
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