LA DEMOCRAZIA.
L’individuo che democrazia e liberalismo assumono, è individuo tra gli altri individui, spinto a realizzare i suoi postulati in mezzo agli altri secondo una ferrea legge di reciprocità; è, cioè, l’individuo rivendicato dall’assolutismo nel quadro della sua opera politica, dominata dall’esigenza e dall’imperativo dell’uno, dell’uno che si moltiplica per tutti alla base e dell’unico sovrano al vertice. Democrazia e liberalismo, che, qui vediamo congiungersi all’assolutismo, per invisibili ma realissimi nessi, distruggono la costruzione di questo, ma ne confermano le fondamenta tentando vanamente di farle servire a diverse ed estranee costruzioni. Quali sono queste costruzioni ? Si tratta di costruzioni, per così dire, strumentali, che debbono servire, cioè, a garantire il perfetto raggiungimento dei fini dell’individuo, dell’individuo uguale agli altri ma limitato dagli altri e che ha perciò solo in se stesso la legge della sua vita, quella legge che, quando si voglia definire in concreto con parole che abbiano un reale significato, si rimpicciolisce nella tendenza alla felicità. A questo punto è necessario distinguere l’ideologia democratica da quella liberale, che fino adesso abbiamo viste congiunte nel concetto dell’individuo e che ora vedremo differenziarsi nella determinazione dei modi ritenuti più idonei alla tutela dell’individuo uniformemente concepito. La democrazia, non si pone il problema dei limiti dell’autorità dello Stato, ma quello della formazione di questa autorità, tentando di derivarla, contro il potere originario dell’assolutismo, dalla libertà stessa degli individui. Gli individui sono quindi considerati dalla democrazia, soprattutto, nella loro unione, nell’atto e nel momento in cui si associano per dar vita allo Stato, e cioè come popolo, il cui concetto assume, appunto, nell’ambito della finalità della democrazia, quei caratteri specifici che conserverà a lungo nel pensiero politico moderno. La democrazia non supera l’individuo ma lo moltiplica, proponendosi tuttavia di conservarlo, e anzi di realizzarlo veramente attraverso questo processo, nell’integrità dei suoi elementi originari. La moltiplicazione dell’individuo è, appunto, il procedimento costitutivo del popolo, su cui soltanto la democrazia può illudersi di fondare lo Stato come espressione della libertà. Senonché in questa triade, di individuo, popolo e Stato, che, secondo il pensiero democratico, dovrebbe articolarsi e saldarsi in nessi necessari, l’unico termine reale e persistente è l’individuo che annienta e divora gli altri due, puramente fittizi. Quella moltiplicazione da cui dovrebbe sorgere il popolo non è una moltiplicazione altro che nell’aspetto; uno moltiplicato per tutti, che come entità numerica reale sono sempre uno, non produce che uno! Il popolo perciò non sorge al di là dell’individuo, ovvero si realizza solo come massa materiale degli individui. Rimanendo problematico il popolo che è la base, resta disorganizzato lo Stato, che è la sua creazione. Tutte le operazioni quantitativistiche escogitate ed adoperate dalla politica democratica non hanno potuto nè potranno mai smentire questa semplice verità: dall’individuo fine a se stesso non sorge l’associazione degli individui, e la molteplicità meramente materialistica degli individui non si risolve nella superiore unità dello Stato. Innestare, come ha tentato di fare il pensiero democratico, su questo individuo, lasciato intatto nella sua intima costituzione, uno Stato diverso, è impresa impossibile: ove si è affermato il popolo, democraticamente inteso, ossia come coesistenza d’individui preventivamente divisi, e quindi come contrasto di individui, non è sorto lo Stato; e dove si è affermato lo Stato, si è affermato al di sopra e al di fuori del popolo. In un mondo politico fondato su un concetto di individuo da cui è impossibile far scaturire la schietta realtà del popolo, il popolo legale non può essere che fittizio e il popolo reale non può essere che dominato. Questa è stata e continua ad essere la legge inesorabile del mondo politico della democrazia.
LA SOCIETA’ LIBERALE.
Il pensiero politico liberale, a differenza di quello democratico che può definirsi una teoria per la fondazione dello Stato, è la dottrina dei limiti dello Stato. Il liberalismo si concentra quindi nella determinazione dei limiti dello Stato sul presupposto che la realtà vera sia nell’individuo, inteso come libertà, e che lo Stato non la continui ma la interrompa. Nessun ponte, quindi, tra l’individuo e lo Stato, come nella democrazia, che aveva tentato di costruire il ponte del popolo per il passaggio dall’uno all’altro e viceversa, ma una rete fittissima di strade di confine custodite dallo Stato e che recingono i campi trincerati delle libertà individuali. Senonché, in questo sistema di sicurezza collettiva resta un varco che il liberalismo non può nè vuole chiudere: il varco per il quale s’introduce nello Stato la forza che deve sostenerlo. Chiudere o comunque controllare questo varco, che non appartiene nè deve appartenere a nessun privato, significherebbe limitare la libertà individuale; se si volesse chiuderlo neanche si potrebbe, dal momento che lo Stato deve pur vivere e per vivere ha bisogno di forze che continuamente lo rinnovino. Ora, è proprio attraverso questo varco che si infiltrano nella società liberale (è più esatto parlare di una Società liberale anziché di uno Stato liberale) quegli interessi particolari che col loro dominio rendono vani e illusori gli universali diritti di libertà, assorbiti e dissolti non più nell’autorità dello Stato ma bensì nel potere di quella libertà o di quelle libertà private che, prevalendo sulle altre, si impadroniscono del congegno dello Stato, per definizione di nessuno e di fatto di quelli che sanno conquistarlo. Avviene così che lo Stato, che pur dovrebbe attuarsi come supremo organo protettivo della libertà privata, finisce col soggiacere, nel fatto, alla forza di quelle libertà private che riescono a prevalere sulle altre. Lo Stato del liberalismo, astratto ed evanescente nel principio, si concreta praticamente nella corpulenza degli interessi particolari che volta a volta se ne impadroniscono. Nel liberalismo, che nega teoricamente la realtà del popolo, si realizza nella pratica l’oppressione del popolo mediante il prepotere degli individui più forti su tutti gli altri. Il liberalismo, partito, come abbiamo visto, dallo stesso punto della democrazia e percorrendo tuttavia una strada diversa, è giunto al medesimo risultato.
IL SOCIALISMO.
Il socialismo, vario nelle sue direzioni teoriche e anche nei suoi successivi sviluppi pratici, sorge nella prima metà del secolo XIX dalle contraddizioni ideali e storiche dello Stato formato dalla democrazia e dal liberalismo. Senonché, lo Stato esistente, pur formato nel nome del popolo o dell’universalità degli individui, è impreparato ad accoglierlo e a tutelarlo. Il socialismo nasce da questo cruciale incontro storico tra la realtà del popolo e l’irrealtà dello Stato popolare nel clima morale e ideologico da cui quest’ultimo è nato. Il socialismo perciò non si opporrà agli ideali della democrazia e del liberalismo, ma pretenderà di realizzarli contro le istituzioni democratiche e liberali. Farà propria la vocazione ugualitaria della democrazia e l’istanza antistatale del liberalismo sulla base comune del concetto materialistico dell’individuo. Si porrà il problema democratico della fondazione dello Stato e lo risolverà nella negazione, implicita nel liberalismo, dello Stato stesso. Lo strumento che il socialismo adopera per pervenire a questa estrema e risolutiva sintesi è la classe, che è il nuovo procedimento di identificazione e di costituzione del popolo, fallito quello dell’individuo della democrazia. Senonché, essa non aggiunge nulla all’individuo democraticamente concepito, ma solo lo fissa nell’aspetto in cui esso si immedesima con gli altri che il processo produttivo parifica e subordina nel presente momento storico. La classe riunisce diversamente gli individui, ma non li trasforma. Anzi, la riunione classistica degli individui si fonda su elementi più differenziati ma più materialistici. Approfondisce il primitivo individualismo della democrazia e del liberalismo e compie irrimediabilmente il distacco dell’individuo dal popolo, già scorto in atto nella democrazia e nel liberalismo, scaturente dall’individualismo dell’uno e dell’altro. Nel socialismo, infatti, l’individuo passando per la successiva riduzione della classe, si pone e permane nella sua espressione più immediata e naturalistica insuscettibile di qualsiasi processo di superiore unificazione e del benché minimo movimento evolutivo. Il socialismo, inquadrando l’individuo nella classe per correggere l’atomismo della democrazia e del liberalismo, ha solo raggiunto l’effetto di riaffermare l’individuo in una sfera ancora più bassa e più statica di quella in cui l’avevano collocato la democrazia e il liberalismo. Esso porta alla sua estrema, logica conclusione l’individualismo moderno nell’atto stesso in cui intende superarlo.
POPOLO E STATO FASCISTA.
Il Regime Fascista è il regime di una credenza unitaria e sintetica; della credenza in un solo principio, nel quale gli elementi di verità, parzialmente impliciti nelle due tesi antitetiche del liberalismo e della democrazia — il riconoscimento dell’interesse o dell’iniziativa dell’individuo, come centro o base dell’attività politica, e il riconoscimento della collettività, come fine o valore di essa — sono come inverati e fusi in una sintesi, che li assorbe ed annulla entrambi, superandoli nel principio della sovranità integrale, realizzantesi nello Stato, della Nazione, come valore che sopravvive nel tempo e si protende nell’avvenire, sugli individui che passano. Principio, il quale ha potuto servire di leva per trasformare radicalmente lo Stato italiano, perchè si tradusse e si traduce quotidianamente in atto, mediante una prepotente volontà realizzatrice che, per quanto impersonata o rappresentata dalla volontà eroica di un Uomo di straordinaria virtù, non era, e non è, però, la volontà arbitraria e personale di Lui, ma la volontà, della più formidabile accolta di uomini, che per virtù di una esperienza eroica vissuta e sofferta insieme, l’Italia abbia, nel nome di una stessa fede e intorno a uno stesso programma di azione, veduto sorgere nel proprio seno. Il Fascismo ha portato lo Stato italiano a sostituire, al suo precedente ordinamento giuridico individualistico, un suo nuovo ordinamento giuridico corporativo, che definisce la Nazione come una «Unità morale politica ed economica che si realizza integralmente nello Stato fascista». Ciò significa che l’organizzazione, per cui lo Stato fascista è definito come Stato corporativo,è l’organizzazione, mediante cui “la sintesi di tutti i valori materiali e immateriali della stirpe si incarna giuridicamente nello Stato”, ossia l’organizzazione giuridica mediante cui lo Stato Fascista realizza integralmente la « unità morale, politica ed economica di quell’organismo avente fine vita e mezzi di azione superiori per potenza e durata a quelli degli individui divisi o raggruppati che lo compongono », che è la Nazione italiana. Significa, in altri termini, che lo Stato fascista è fascista per la finalità unitaria, che gli è implicita, corporativo, per il sistema di organizzazione giuridica, con cui esso realizza la propria finalità: fascista, per la volontà che lo anima, corporativo, per la forma, con cui questa volontà si attua. Il che vale quanto dire che il corporativismo fascista è in funzione della dottrina politica del fascismo, e non viceversa, perché è sempre la volontà politica, che crea la propria organizzazione giuridica, e non questa che fa sorgere quella. Dal che deriva che lo Stato fascista, lungi dal ridursi ad essere uno Stato, che vive secondo il proprio diritto, è, vuole, sente di essere, l’anima o lo spirito di quel corpo che è il popolo; il popolo, che soltanto nello Stato fascista vive e agisce concretamente come unità: vale a dire, non lo Stato “guardiano notturno che si occupa soltanto della sicurezza personale dei cittadini”, e nemmeno un organismo a fine puramente materiale, ma un fatto spirituale e morale, una manifestazione dello spirito; lo Stato a cui, appunto perché « educa i cittadini alla vita civile, li rende consapevoli della loro missione, li sollecita all’unità, armonizza i loro interessi nella giustizia, tramanda le conquiste del pensiero, nelle scienze, nelle arti, nel diritto, nella umana solidarietà, porta gli uomini dalla vita elementare della tribù alla più alta espressione di potenza umana, che è l’Impero », si può applicare la formula per la prima volta enunciata da Mussolini il 20 ottobre 1925 alla Scala: “Tutto per lo Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato”: formula, la quale, nel pensiero di chi la pronunciò, si risolve esattamente in quest’altra: “tutto nel popolo, niente fuori del popolo, nulla contro il popolo”. E cosi il Fascismo ha offerto, per primo, al mondo moderno, l’esperimento di un tipo di civiltà politicadel tutto e in tutto diversa da qualsiasi altro: quel nuovo tipo di civiltà, che « armonizza la tradizione con la modernità, il progresso con la fede, la macchina con lo spirito, e che segna la sintesi del pensiero e delle conquiste di due secoli ». Il 25 ottobre 1932, Mussolini affermò che “…solo fascistizzandosi, l’Europa potrà evitare la fine miseranda che l’attende, se la democrazia dovesse continuare a imperversare. Questo secolo si annunzia per mille segni, non come una continuazione, ma come l’antitesi del secolo scorso”. Quello fu il secolo della democrazia apparente nello Stato democratico: questo è il secolo della democrazia reale nello Stato fascista.
(Estratto da “Stato e Popolo nei secoli XIX e XX”, Roma, 1938, Istituto Nazionale di Cultura Fascista.)
Potete scaricare il testo integrale del documento in formato Pdf. digitando sul seguente link (QUI)