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STATO – ANTISTATO – FASCISMO!

  

 

Lo scritto che segue, il cui altissimo valore politico, nonostante i settantacinque anni trascorsi dalla sua stesura, è dato dalla sorprendente attualità del tema affrontatovi, riguardante tanto l’odierna crisi dello Stato italiano in particolare quanto, più in generale, quello del concetto stesso di Stato, attiene alla conferenza tenuta da Carlo Alberto Biggini ( [1902-1945] docente di diritto costituzionale e comparato, rettore dell’Università di Pisa, presidente della commissione di Mistica fascista ai littoriali, Ministro dell’Educazione Nazionale, membro del Gran Consiglio del Fascismo) presso la Scuola di Mistica Fascista in un periodo compreso presumibilmente tra il 1942 ed il 1943 (datazione che possiamo evincere approssimativamente da alcuni elementi presenti nel testo stesso, nel quale non è però riportata alcuna data precisa al riguardo). Un documento molto importante poiché analizza un particolare scritto mussoliniano risalente al 1922, riguardante la concezione dello Stato espressa nella visione politica dell’ideale fascista, osservato alla luce dei successivi sviluppi politico-sociali ventennali del Regime, che confermano a parere del relatore la lungimiranza delle analisi del Duce, mostrandone la reale capacità di saper coerentemente realizzare secondo peculiari modalità la propria originalissima Rivoluzione. Il testo è tratto da una discussione presente sul nostro forum de “IlCovo“.

STATO, ANTISTATO, FASCISMO!

di Carlo Alberto Biggini

Camerati, è la prima, volta che ho il grande onore di parlare da questa mistica cattedra, dalla quale Arnaldo additò ai giovani le più pure e le più alte idealità, che del binomio coscienza e dovere fece il fondamento della nostra vita, per degnamente vivere e per degnamente morire, e sento tutta la responsabilità di parlare dalla cattedra del nostro Maestro per illustrare, con le mie modeste parole, uno degli scritti storici del Duce. Ecco perché desidero devotamente inchinarmi davanti alla Sua memoria con spirito di credente e con quei sentimenti che animano l’eroico misticismo della nostra Rivoluzione, dedicare umilmente a Lui il pensiero contenuto in questo commento, a Lui che dello Stato Mussoliniano ebbe chiari il fine e la struttura, che di questo secolo comprese i vitali motivi storici suscitati dal pensiero e dall’azione del Duce, che visse e lottò, insegnando il dolore come necessità, il sacrificio come dovere, l’obbedienza come gioia, la bontà come forza, la verità come arma, la coscienza come giudice, il dovere come legge, che visse e lottò per una maggiore giustizia, per una nuova cultura, per un più alto diritto nel santo nome della Sua, della nostra, Italia immortale. Il Duce pubblicò il 25 giugno 1922 nella rivista Gerarchia un articolo dal suggestivo titolo “Stato, Antistato, Fascismo”, col quale intendeva precisare ” il punto di vista del Fascismo di fronte al concetto di Stato, in astratto, e di fronte a quella incarnazione speciale e individuata dell’idea di Stato che è lo Stato italiano.” Da quali precisi fatti politici prendeva spunto l’articolo? Il quale non si può intendere se non ricollegandolo, nel suo aspetto concreto, agli sviluppi che il movimento fascista era andato assumendo tra il luglio 1921 e i primi mesi del 1922. Che cosa fu “l’occupazione fascista di Ferrara” e, soprattutto, “l’occupazione a carattere militare di Bologna” per usare le precise parole del Duce? Ai primi del 1922 il Partito fascista è già la maggior forza organizzata della Nazione. Gli avversari dei numerosi e vari partiti dai programmi ben definiti continuavano a dire che il programma fascista, così indeterminato, non era un programma; i soliti costruttori di schemi ideologici, confondendo filosofia e vita, dimenticavano, e ne avranno poi la più tremenda smentita dalla realtà, che sentimenti e passioni sono anch’essi pensieri in formazione, che hanno la mirabile capacità di creare fatti, nei quali è sempre qualche pensiero, di creare la storia. Gli uni e gli altri condannavano il fascismo come estraneo alla nazione, come estraneo alla cultura politica. Ed invece il Partito fascista cresceva, cresceva il Fascismo, che, anche allora, non si esauriva tutto nel partito: il Fascismo diventava veramente la Nazione, con essa sempre più tendeva ad identificarsi, mentre il Duce affermava che il movimento dei Fasci non aveva soltanto scopi da raggiungere, ma una missione da compiere. Ed insieme a tale missione il Fascismo cominciava ad avere i suoi miti: già nel 1922 era titolo di gloria aver appartenuto ai fondatori, al primigenio fascio di Milano, un alone luminoso già circondava il 23 marzo 1919. Quanto cammino in due anni! E quanti camerati caduti nella battaglia di ogni giorno in ogni parte d’Italia! Vi era una tradizione fondata dal sangue, cementata dai morti: tradizione che è la gloria più alta e più pura della Rivoluzione delle Camicie Nere, perché fondata sull’eroismo e sul martirio, mistica dei popoli farti, tradizione continuata da quella gioventù che ha saputo esprimere in tre guerre tutta la propria ansia di sacrificio e di dedizione, offrendo così testimonianza che l’idea mistica è destinata a rifiorire perennemente in tutti coloro che sanno portare alta la bandiera della fede. Ed intanto Mussolini impersonava sempre più e meglio il movimento, da lui creato, nei suoi elementi essenziali: mentre lo definiva e lo differenziava, lo dilatava spiritualmente, lo portava ad identificarsi con la secolare gloriosa storia italiana. Ogni giorno parlava dal Popolo d’Italia, senza indugiarsi nei dettagli, senza perdersi nella cronaca quotidiana, ma suscitando visioni, segnando vie, additando mete: e nelle grandi occasioni la sua presenza viva, la sua parola viva, la sua parola che non è un parlare, ma un operare, incidendo nell’animo delle folle, mettendole in quello stato di emozione tanto vicino all’azione, sinonimo di azione, con una eloquenza che ripudiava quella “verbosa prolissa inconcludente” dei democratici, sono sue parole, per affermare una “squisitamente fascista, cioè scheletrica aspra schietta e dura”. E mentre le sue parole e i suoi scritti destavano nelle adunate, nelle assemblee, nel paese fremiti d’entusiasmo e commozione profonda, precisava ed approfondiva, con mirabile vigore polemico, il suo pensiero e rettificava, con chiarezza e necessaria crudezza, arbitrarie interpretazioni e superate mentalità, impedendo deviazioni e sbandamenti, resistendo alle correnti troppo destre e troppo sinistre. Egli trovò sempre, di fronte a tanto fermento di passioni e di idee, in mezzo alla dura sanguinosa lotta, ispirazioni così profonde ed accenti così alti che, anche oggi, alla calma lettura, quei discorsi, quegli scritti suscitano intima commozione. Non una parola superflua o fuori posto, ma rigore logico nella coordinazione di elementi storici, filosofici, politici: il grande corso della storia italiana ed europea riassunto, interpretato, svolto, dominato, come una forma plastica. Alla grandezza e alla gravità degli argomenti fanno riscontro, come nello scritto del quale parliamo, la moderazione e la precisione del linguaggio; alla necessità di dissipare errori e false interpretazioni, il vigore polemico, spesso pervaso di sarcasmo e di ironia, che demolisce arbitrarie costruzioni degli avversari, chiarisce equivoci e delinea con la forza delle argomentazioni, i reali contorni degli avvenimenti ,il carattere e la portata della grande lotta antibolscevica, antisocialista, antidemocratica. Il 22 novembre 1921 in un articolo su “relativismo e fascismo” nel Popolo d’Italia, a proposito di una definizione di Adriano Tilgher, per il quale il fascismo era “l’assoluto attivismo trapiantato sul terreno della politica”, affermava che il fascismo è la più formidabile creazione di una volontà di potenza individuale e nazionale. E mentre disdegnava certi intellettuali, che nella presunzione e nella supervalutazione della loro cultura o scienza, erano incapaci d’imprimere un qualsiasi impulso alle cose, aspirava ad un profondo rinnovamento della cultura, sì che alla fine del 1921 si parlava già di un fascismo avente pur esso un suo ideale di cultura, di una cultura fascista, come cultura viva, mobile, capace d’identificarsi con la vita, di un’arte fascista, di uno stile, di un modo di vivere fascista. E nel Marzo 1922 Mussolini affermava che il fascismo doveva darsi una sua filosofia, doveva cioè acquistare, con la riflessione, piena consapevolezza di sé. Tre anni d’intensa lotta, dal 23 marzo 1919 al 25 giugno 1922, data di questo scritto del Duce, avevano arricchito il fascismo di un proprio contenuto positivo: non che i suoi compiti contingenti, rivendicazione dell’intervento, esaltazione della vittoria, argine insuperabile al dilagante bolscevismo, diminuissero d’importanza, ma, elevandosi come pensiero politico, affermandosi come movimento nazionale, non più legato a circostanze o esigenze mutevoli, aveva davanti agli occhi un orizzonte più largo, scopi più lontani. Dimostrazioni popolari in molte città italiane, specie a Firenze e a Bologna, sotto le prefetture e i comandi militari, al grido di “viva la dittatura” facevano scrivere a Mussolini il 12 febbraio 1922 sul Popolo d’Italia: “la parte migliore della Nazione non va a sinistra, ma a destra, verso l’ordine, le gerarchie, la disciplina. Da tre anni chiede un governo e non lo ha. Il governo non c’è. La crisi attuale mostra l’incapacità della Camera a dar un governo alla nazione. Può essere che il grido di Bologna diventi, domani, il coro formidabile di tutta la Nazione.” Nella incapacità e bassezza parlamentare di tutti i vecchi partiti, il commento mussoliniano al grido delle moltitudini dava nuovi motivi alla fase romantica eroica della insurrezione armata contro una classe politica inetta e corrotta. “Non un ministero, ma un governo”, dirà poi il Duce assumendo il potere, mentre si apprestava a dare fondamento, vita, struttura a una nuova concezione e realtà dello Stato. Sempre nel febbraio 1922 si ebbe un convegno a Roma fra la direzione del Partito e il comitato centrale provvisorio delle corporazioni sindacali e nell’aprile 1922 nacque il Lavoro d’Italia, diretto da Rossoni, il quale, nell’appello ai lavoratori italiani scriveva: “il sindacalismo nazionale ricomincia daccapo la riorganizzazione degli italiani di tutte le professioni e d’una sola fede in un quadro grandioso di educazione politica, di capacità produttiva, di coscienza e disciplina nazionale”. E Mussolini salutava il nuovo giornale affermando che Il Popolo d’Italia e Lavoro d’Italia vivranno fusi insieme “contro tutti i parassitismi della politica e dell’economia” e che il fascismo si rivolgeva “alle nuove masse dei lavoratori del braccio e del pensiero per elevarne le condizioni e legarli sempre più intimamente alla vita ed alla storia della nazione.” Difatti mentre nuove e vaste categorie di popolo accorrevano al fascismo, alle organizzazioni sindacali nazionali, il movimento rivoluzionario cercava, desiderava le occasioni per sostituirsi al governo, quasi essere governo, per sostituirsi allo Stato, quasi essere Stato, specie dove le conseguenze della debolezza, della assenza, della precarietà dello Stato liberale-socialista potevano essere più gravi. Nella primavera avevano avuto luogo alcune grandi adunate fasciste: il 26 marzo, a Milano, per il terzo anniversario della fondazione dei Fasci, una imponente adunata di operai, lavoratori dei campi, piccoli borghesi, combattenti e squadre d’azione. Il 21 aprile, festa del lavoro e Natale di Roma, ebbe la sua prima celebrazione con adunate e cortei in tutta Italia. E Mussolini sul suo giornale scriveva: “In Roma noi vediamo la preparazione dell’avvenire. Roma è il nostro mito. Sogniamo un’Italia romana cioè saggia e forte, disciplinata e imperiale. Molto dello spirito immortale di Roma risorge nel Fascismo: romano è il littorio, romana la nostra organizzazione di combattimento, romano il nostro orgoglio e coraggio.” Il 12 maggio cinquantamila fascisti delle organizzazioni di combattimento e quelle sindacali, affluendo da tutte le strade, a piedi, in bicicletta, su autocarri, entro barconi fluviali, occupavano militarmente, offrendo un nuovo e stupendo esempio di disciplina, di organizzazione di capacità rivoluzionaria, la città di Ferrara: l’occupazione durò sino al 14 maggio. E’ un nuovo tipo di sciopero, uno sciopero fascista: non cercano sussidi, ma lavoro, vogliono l’esecuzione di opere già deliberate, si sostituiscono alla lentezza, alla incapacità del governo. E sul Popolo d’Italia Mussolini scriveva, in proposito, che la manifestazione non aveva scopo sovversivo, ma si prefiggeva un obbiettivo di ordine immediato, la sollecita esecuzione di un piano di opere pubbliche, già deciso ed approvato dalle competenti autorità, allo scopo di alleviare la grave disoccupazione, che tormentava le masse del ferrarese. Due settimane dopo, dal 31 raggio al 2 giugno, avviene l’occupazione militare di Bologna: in seguito ad atti di sangue contro fascisti, in Bologna e in provincia, in seguito ad atti di repressione contro fascisti da parte delle autorità locali, si ha il sospetto che il governo, d’accordo con gli stessi partiti sovversivi, voglia abbatter l’organizzazione politica e sindacale fascista, quel fascismo padano che faceva paura perché finemente politico ed audacemente combattivo. I fasci sono mobilitati, tutti i poteri dei direttori passano ai comitati d’azione, Michele Bianchi, segretario del Partito, trasferisce la sua sede a Bologna, giungono squadre dal ferrarese, dal modenese, dal veneto. Sono oltre diecimila uomini che si concentrano in Bologna: bivacchi sotto i portici, ronde notturne, sveglia, rancio, nuovo esempio della forza rivoluzionaria della organizzazione politico militare fascista, pronta, audace, disciplinata. E quando il prefetto Mori fu destituito e i servizi di polizia passarono al comandante del corpo d’armata generale Sani, le squadre partirono, l’occupazione fascista della città cessò. Quasi negli stessi giorni aveva luogo la prima adunata nazionale delle corporazioni sindacali, come allora si chiamavano: era una nuova grande battaglia vinta per strappare le masse al socialismo e Mussolini il 20 maggio scriveva: “il tricolore, ignorato per lo innanzi, sventola ora nei più oscuri villaggi. E’ grande merito del Fascismo essere riuscito a inserire vaste masse operaie e rurali nel corpo vivente della nostra storia.” Di fronte a tale complessa situazione politica, che, insieme ad una lotta sempre più aperta, decisa e spesso sanguinosa, offriva il nuovo spettacolo di masse, mobilitate e smobilitate a un cenno, che mentre fiancheggiavano lo Stato, quello Stato sempre più impotente ed inesistente nella instabilità parlamentare dei suoi governi e privo di forza morale, operavano fuori o contro lo Stato, molta gente si domandava: ma il Fascismo vuole restaurare o sovvertire lo Stato? Interrogativi che raccoglieva, appunto, Mussolini in Gerarchia, precisandoli: è ordine o disordine? Si può essere e non essere? Si può essere conservatori e sovversivi al tempo stesso? Come intende uscire il Fascismo dal circolo vizioso di questa sua paradossale contraddizione? E rispondeva: il Fascismo è già uscito da questa contraddizione perché la contraddizione che gli viene imputata non esiste, è semplicemente apparente, non sostanziale. E così rispondendo aveva modo di precisare, per la prima volta, la concezione fascista dello Stato nel suo significato universale e rivoluzionario e nel suo aspetto particolare come Stato italiano. Quella concezione che avrà poi da Lui ampi profondi originali sviluppi in tutti i suoi scritti e discorsi e, in modo speciale, nella sua dottrina fascista. Ma per compiutamente intendere il pensiero di Mussolini è necessario chiarire questa posizione di Stato e anti-Stato, nella quale è racchiuso gran parte del travaglio storico della Rivoluzione delle Camicie Nere: senza tale intelligenza non è possibile avvicinarci alla realtà dello Stato fascista, alla concezione mussoliniana dello Stato. Mussolini chiarendo tale antitesi, apparente e non sostanziale, si poneva sul terreno della teoria generale dello Stato, portava un contributo originale ad uno dei più ardui problemi della scienza politica e giuridica. Senza entrare nelle controversie sul cosiddetto governo legittimo, sul diritto alla resistenza collettiva o alla rivoluzione, su l’origine e la giustificazione della sovranità, argomenti che non sono indifferenti, ma che includeremo da un punto di vista più profondo e sostanziale, è certo che la trasformazione fascista, dal vecchio al nuovo ordinamento dello Stato, è avvenuta rivoluzionariamente, anche se gradualmente, perché tale trasformazione ha investito l’ordinamento liberale democratico nel suo fondamento e nella sua struttura, ossia nei suoi principi e in molti dei suoi istituti costituzionali, perché tale trasformazione è congiunta alla vita e alla attività di organismi di fatto divenuti poi organismi di diritto, perché tutta una nuova concezione etico-storico-politica dello Stato è venuta affermandosi e traducendosi in forme giuridiche, perché, infine, tale trasformazione riposa sul principio della “rivoluzione continua”, che ha, non solo dal punto di vista politico, ma anche da quello giuridico, un particolare e rilevante significato da non potersi trascurare assolutamente per la retta interpretazione e ricostruzione del sistema statuale fascista. Si usa dire che se un movimento politico, se una rivoluzione riesce al suo scopo e dà vita ad un nuovo ordinamento statuale, essendosi estinto l’ordinamento secondo le cui norme si poteva giudicare, manca un ordinamento positivo, dato che il nuovo ordinamento instauratosi non può essere assunto per risolvere il problema, alla cui stregua valutare i fatti e gli atti nei quali si è realizzato il procedimento dell’instaurazione. Ma l’affermazione di Mussolini contiene implicitamente il concetto che il diritto è un elemento così essenziale dello Stato, che l’uno non può concepirsi senza l’altro. Ecco perché, chiedendosi in questo scritto, che cosa è lo Stato, non lo soddisfa pienamente uno degli stessi postulati programmatici del Fascismo, in cui lo Stato veniva definito come “l’incarnazione giuridica della Nazione”. La formula è vaga, Egli scriveva. Lo Stato, soprattutto lo Stato moderno, è anche questo, ma non è soltanto questo. Ora questa affermazione importa che si debba riconoscere qualità ed efficacia di diritto al diritto positivo non solo quando l’instaurazione del nuovo ordinamento è avvenuta con procedimento giuridico, ma anche quando ha avuto luogo con procedimento di fatto. Il diritto difatti può evolversi per via di successive estrinsecazioni, ma può anche formarsi originariamente, ossia scaturire da esigenze e da necessità sociali, prima non esistenti. Se si concepisce lo Stato come l’istituzione che è la espressione sovrana unitaria di tutte le forze sociali e che risolve un aggregato di uomini in un ordinamento politico, non può neppure astrattamente pensarsi uno Stato che non sia simultaneamente e sempre un ordinamento giuridico e che nella sua esistenza storica possa vivere, anche per un fuggevole istante, fuori del diritto o senza diritto. Il concetto di Stato, già così chiaro nella mente di Mussolini anche negli scritti anteriori al 1922, è quello di una viva ed unitaria realtà che non si esaurisce nelle norme poste e nell’ordinamento giuridico esistente, è quello di uno Stato che, nella sua natura etica, anima e muove il diritto positivo. Ecco perché spesso non ci s’intende, specie tra giuristi, sui concetti fra di loro concatenati di Stato, di partito rivoluzionario e di rivoluzione, se non si distingue la persona formale da quella sostanziale o ideale dello Stato, se personalità dello Stato vuol dire non solo unità, ma anche continuità dell’unità di esso. Le forme temporali dello Stato mutano e cambiano: lo Stato nella sua sostanza ideale (la contraddizione tra Stato e anti-Stato, richiamiamo ancora la frase mussoliniana, è semplicemente apparente, non sostanziale) lo Stato in sé è continuo ed eterno. La stessa rivoluzione lungi dall’essere un fenomeno fuori o contro lo Stato, è un fenomeno dello Stato e nello Stato, un episodio della eterna ed immanente fenomenologia dello Stato. E lo Stato, che Mussolini intende prendere in considerazione, non è quello formato, cioè considerato nella sua astrattezza, nel momento della sua saldezza e perfezione giuridica, ma lo Stato in quanto prodotto vivo ed immediato della rivoluzione in corso. Ossia di quel movimento politico che cessa di essere soltanto sentimento o stato d’animo e dai programmi ideali passa a realizzarsi in azione, ossia di quel movimento politico rivoluzionario che vuole raggiungere il suo scopo, attuare il trasferimento dell’esercizio del potere sovrano. E la rivoluzione può giudicarsi soltanto alla stregua di questo più ampio ordinamento giuridico, di un ordinamento che rifletta lo Stato nella sua interezza e nella sua unità storica, sostanziata dalle norme di un diritto che contiene e supera la successione dei vari, continuamente nuovi, i diritti positivi. La personalità dello Stato è l’autonomo prodotto della superiore mediazione continua delle singole personalità che costituiscono il popolo, come elemento dello Stato o corpo dello Stato, al quale la sovranità può essere riferita, senza eliminare il processo di unificazione delle molteplici volontà individuali attuato soltanto dal soggetto Stato, in quanto esso è lo spirito del popolo, secondo la nota definizione di Mussolini. Profonda era la crisi dello Stato italiano; e poiché vi sono due distinte non confondibili specie di crisi, le crisi materiali e le crisi ideali o rivoluzionarie dello Stato, la nostra crisi del 1919-22 era ideale, morale, spirituale, prodotta da cause ideali, ossia da nuove idee politiche e sociali, ove l’agente perturbatore era ancora, e sempre lo spirito, l’insofferente ed insaziato spirito sociale dell’uomo. Nelle crisi ideali le nuove idee, specie se agitate, interpretate, riassunte da una grande personalità individuale, spostano i rapporti, cambiano la faccia delle cose, trasformano lo Stato: abbiamo le rivoluzioni, e quindi le dittature rivoluzionarie, ch’è da ciechi confondere e paragonare con le dittature restauratrici dell’ordine provocate e necessitate dalle crisi materiali dello Stato. La rivoluzione, come quella delle Camicie Nere, è un’idea potente, impetuosa, gagliarda, che urta, rompe, scompone, vince, che vuol vincere, che si afferma, che si impone, che si incorpora con la realtà con cui fa storia: essa è, in una parola, una nuova concezione dello Stato, lo Stato nuovo che si forma. Del resto, quando si dice che la rivoluzione cammina, procede, ha i suoi doveri e i suoi diritti, non si dicono delle frasi, non si formano delle metafore, ma si pone in essere un vero e proprio soggetto morale e giuridico operante. In altri termini, come è una persona morale e giuridica lo Stato, titolare della sovranità, così è una persona morale e giuridica la rivoluzione, titolare della nuova sovranità, la sovranità appunto rivoluzionaria. La rivoluzione fascista, tra il 1919 e il 1922, era un’idea che aveva bisogno di entificarsi e si entificava in effetti in quello ch’era il movimento, il partito rivoluzionario, soggettivazione e personificazione morale e giuridica della rivoluzione, titolare della sovranità e legalità rivoluzionarie, l’idea divenuta soggetto, ossia il soggetto o la persona morale e giuridica della rivoluzione. Eppure quanto si è poi errato nella valutazione della posizione del partito nello Stato e, dello stesso Stato fascista da parte di non pochi giuristi: tema questo che ci porterebbe lontano. Vogliamo solo osservare che coloro che hanno compiuto il faticoso ma inutile tentativo di esaurire, costringere, incasellare i nuovi istituti entro gli schemi del vecchio ordinamento, li hanno svuotati del loro spirito e del loro valore. Mentre per determinare le nuove forme che, in corrispondenza agli ideali della rivoluzione fascista, si sono andate nel tempo disegnando, per intendere e cogliere la nuova realtà, per tradurre in termini riflessi e logici le linee di tale realtà, bisognava sentire i nuovi ideali, viverli, farli propri, sangue del proprio sangue, sentire la grandezza e l’originalità del processo creativo della Rivoluzione. Cambiando i principi fondamentali, espressione della nuova realtà storico-politica, cambiano necessariamente tutti gli istituti dello Stato. E lo Stato per il Fascismo è potenza politica, è volontà di potenza: se muta il contenuto del suo volere sovrano, la sua volontà non può non dirigersi verso altri fini. “Quando la gerarchia dei politici vive giorno per giorno – scrive Mussolini in questo suo scritto – e non ha più la forza morale di perseguire scopi lontani, ne di piegare le masse al raggiungimento di questi scopi, lo Stato viene a trovarsi di fronte a questo dilemma: o si dissolve dietro l’urto di un altro Stato o attraverso la rivoluzione sostituisce o rinsangua le gerarchie decadenti o insufficienti.” Anche qui Mussolini coglie l’aspetto essenziale, il nucleo segreto della forza e della potenza dello Stato: quando uno Stato non sovranamente vuole e nega quindi la propria intima ed eterna natura, quando non sente la propria volontà di potenza, è uno Stato che rinunzia a vivere e si avvia a morire, mentre muta ordinamenti ed organi e rinsangua le proprie gerarchie, quando la volontà rivoluzionaria fa ritrovare allo Stato tutta la propria volontà di potenza. L’errore della scuola storica, che generò poi ed alimentò la scuola organica ed evoluzionistica, fu di aver posto in circolazione l’idea che le trasformazioni del diritto e dello Stato fossero soltanto continue, graduali, pacifiche, senza urti, senza rotture, ossia pure e semplici modificazioni. Come quegli uomini che vogliono il fine, ma non le conseguenze: guerra senza morti e senza sacrifici, amore senza figli, rivoluzione senza rotture di teste. Come quegli ammalati d’individualismo, che vorrebbero sempre vivere di notte, perché la notte con le stelle è individualista e il giorno con il sole è monarchico. In verità abbiamo processi modificativi ed evolutivi delle istituzioni preesistenti, come abbiamo anche processi involutivi del diritto, ma abbiamo, e sono i più notevoli e caratteristici, perché veri artefici di storia, processi rivoluzionari di mutazione, di trasformazione e di creazione di nuove istituzioni. Mussolini, in questo suo scritto, non poneva soltanto il problema rivoluzionario del Fascismo di fronte allo Stato, ma afferrava con originalità e chiarezza quella concezione fascista dello Stato, che avrà poi, in numerosi suoi scritti e discorsi, che non possiamo certamente qui ricordare tutti, sviluppi ed approfondimenti tali da imprimere a tale concezione il carattere della universalità. La decadenza delle gerarchie significa la decadenza degli Stati, scriveva in questo scritto del 1922: quindi necessita di nuove gerarchie. E il Fascismo, precisava Mussolini, non nega lo Stato, ma afferma che una società civica nazionale o imperiale non può essere pensata che sotto la specie di Stato. L’esito della lotta tra Stato formato, decadente e in crisi, e Stato in formazione, tra Stato e anti-Stato, tra Stato socialista (poiché secondo Mussolini, lo Stato in Italia era liberale soltanto nel nome) e Stato fascista, non può essere dubbio, date le forze e l’organizzazione di cui dispone il Fascismo. E’ il grande condottiero politico, sicuro della potenza morale delle nuove idee, è Mussolini con il suo intuito profetico, che mai ha errato e che sempre ha avuto ragione. Difatti, certo della vittoria, scriveva quattro mesi prima della Marcia su Roma, che non c’era dubbio che Fascismo e Stato erano destinati, forse in un tempo relativamente vicino, a diventare una identità. E in quale modo? Forse in modo legale. Il Fascismo può aprire la porta con la chiave della legalità, ma può anche essere costretto a sfondare la porta con il colpo di spalla dell’insurrezione. Nel 1927, in uno dei più vasti e complessi suoi discorsi, in quel discorso passato alla storia col nome di “discorso dell’Ascensione”, si chiedeva “che cosa abbiamo fatto, o fascisti, in questi cinque anni? Abbiamo fatto una cosa enorme, secolare, monumentale. Abbiamo creato lo Stato unitario italiano”. E riaffermava, non meno energicamente, la sua formula del discorso alla Scala di Milano, “tutto nello Stato, niente contro lo Stato, nulla al di fuori dello Stato”. Che cosa era quello Stato che Egli prese boccheggiante, avvilito dalla sua impotenza organica? Che cosa era lo Stato conquistato all’indomani della Marcia su Roma? Non era uno Stato, Mussolini disse, ma un sistema di prefetture, malamente organizzate, nel quale il Prefetto non aveva che una preoccupazione, di essere un efficace galoppino elettorale, uno Stato in cui il popolo intero era assente, refrattario, ostile. E poteva così con giusto orgoglio preannunciare al mondo “la creazione del potente Stato unitario italiano, dall’Alpi alla Sicilia”, e subito dopo, con spirito profetico, siamo nel 1927, “io vi dico che, tra dieci anni, l’Italia, la nostra Italia, sarà irriconoscibile a se stessa ed agli stranieri, perché noi l’avremo trasformata radicalmente nel suo volto, ma sopra tutto nella sua anima”. Nel 1929, nel discorso sulla Conciliazione alla Camera: “Che cosa sarebbe lo Stato se non avesse un suo spirito, una sua morale, che è quella che dà la forza alle sue leggi, e per la quale esso riesce a farsi ubbidire dai cittadini? Che cosa sarebbe lo Stato? Una cosa miserevole, davanti alla quale i cittadini avrebbero il diritto della rivolta o del disprezzo.” E dopo aver rivendicato l’eticità dello Stato fascista, precisava: “Ognuno pensi che non ha di fronte a sé lo Stato agnostico demoliberale, una specie di materasso sul quale tutti passavano a vicenda; ma ha dinanzi a sé uno Stato che è conscio della sua missione e che rappresenta un popolo che cammina, uno Stato che trasforma questo popolo continuamente, anche nel suo aspetto fisico. A questo popolo lo Stato deve dire delle grandi parole, agitare delle grandi idee e dei grandi problemi, non fare soltanto dell’ordinaria amministrazione”. E sempre nel 1929, nel discorso pronunciato alla grande Assemblea del Fascismo: “reazionari noi? No: precursori, anticipatori, realizzatori di quelle nuove forme di vita politica e sociale che appaiono talvolta tentate, sotto altre forme anche nei paesi che rappresentano gli ideali, ormai sopraffatti, dello scorso secolo.” Nel suo mirabile saggio su la Dottrina del Fascismo, nel 1932, citiamo soltanto alcune affermazioni: “Per il fascista tutto è nello Stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dello Stato. In tal senso il Fascismo è totalitario e lo Stato fascista, sintesi e unità di ogni valore, interpreta, sviluppa e potenzia tutta la vita del popolo. […] Nell’orbita dello Stato ordinatore le reali esigenze da cui trasse origine il movimento socialista e sindacalista, il Fascismo le vuole riconosciute e le fa valere nel sistema corporativo degli interessi conciliati nell’unità dello Stato. […] La Nazione è creata dallo Stato, che dà al popolo, consapevole della propria unità morale, una volontà, e quindi un’effettiva esistenza. […] Caposaldo della dottrina fascista è la concezione dello Stato, della sua essenza dei suoi compiti, delle sue finalità.” Nella sua dottrina riporta poi le parole pronunciate nel 1929 alla prima assemblea quinquennale del Regime, parole che riassumono veramente tutta la sua concezione dello Stato: è, da Platone ad oggi, la più bella pagina di letteratura politica intorno al concetto di Stato. Merita sempre rileggerla per la gioia dello spirito e per le grandi universali verità che contiene. “Per il Fascismo lo Stato non è il guardiano notturno che si occupa soltanto della sicurezza personale dei cittadini: non è nemmeno una organizzazione a fini puramente materiali, come quella di garantire un certo benessere e una relativa pacifica convivenza sociale, nel qual caso a realizzarlo basterebbe un consiglio di amministrazione; ma non è nemmeno una creazione di politica pura, senza aderenze con la realtà materiale e complessa della vita dei singoli e di quella dei popoli. Lo Stato così come il Fascismo lo concepisce e attua è un fatto spirituale e morale, perché concreta l’organizzazione politica, giuridica, economica della Nazione, e tale organizzazione è, nel suo sorgere e nel suo sviluppo, una manifestazione dello spirito. Lo Stato è garante della sicurezza interna ed esterna, ma è anche il custode e il trasmettitore dello spirito del popolo così come fu nei secoli elaborato nella lingua, nel costume, nella fede. Lo Stato non è soltanto presente, ma è anche passato e soprattutto futuro. E’ lo Stato che, trascendendo il limite breve delle vite individuali, rappresenta la coscienza immanente della Nazione. Le forme in cui gli Stati si esprimono, mutano, ma la necessità rimane. E’ lo Stato che educa i cittadini alla virtù civile, li rende consapevoli della loro missione, li sollecita all’unità, armonizza i loro interessi nella giustizia; tramanda le conquiste del pensiero nelle scienze, nelle arti, nel diritto, nell’umana solidarietà; porta gli uomini dalla vita elementare della tribù alla più alta espressione umana di potenza che è l’impero; affida ai secoli i nomi di coloro che morirono per la sua integrità o per ubbidire alle sue leggi; addita come esempio e raccomanda alle generazioni che verranno i capitani che lo accrebbero di territorio e i geni che lo illuminarono di gloria. Quando declina il senso dello Stato e prevalgono le tendenze dissociatrici e centrifughe degli individui o dei gruppi, le società nazionali volgono al tramonto.” E sempre nella dottrina fascista ritornato sul concetto di Stato fascista come volontà di potenza e d’impero e precisato che la tradizione romana è un’idea di forza, afferma: “l’impero chiede disciplina, coordinazione degli sforzi, dovere e sacrificio: questo spiega molti aspetti dell’azione pratica del regime e l’indirizzo di molte forze dello Stato e la severità necessaria contro coloro che vorrebbero opporsi a questo moto spontaneo e fatale dell’Italia nel secolo XX e opporsi agitando le ideologie superate del secolo XIX, ripudiate dovunque si siano osati grandi esperimenti di trasformazioni politiche e sociali.” E subito dopo: “Se ogni secolo ha una sua dottrina, da mille indizi appare che quella del secolo attuale è il Fascismo.” Si pensi allo scritto che commentiamo, 25 giugno 1922, lo si colleghi a questi passi, ora rievocati, intorno alla concezione dello Stato e a tutti quegli altri innumerevoli che ciascuno di noi può ritrovare con una attenta ed intelligente lettura dei Suoi scritti e discorsi: si avrà di fronte la personalità morale intellettuale politica di Benito Mussolini in tutta la sua mirabile profetica coerenza, in tutta la grandezza del Suo genio. Mentre poneva i dilemmi “saremo con lo Stato e per lo Stato”, “ci sostituiremo allo Stato”, “ci schiereremo contro lo Stato”, contro uno Stato che non era neppur più garante della sicurezza dei cittadini, mentre ferveva la lotta di Stato, anti-Stato, mentre l’anti-Stato era già Stato in tutta la sua potenza etica, la mente di Mussolini aveva maturato il grande disegno; dal “Covo” all’Impero. La crisi dello Stato italiano apre alla sua mente (e in questo senso la crisi 1919-1922 fu veramente benefica) il grande tormentoso problema di una Italia che doveva ritornare Impero, di una Roma che doveva nuovamente esercitare nel mondo la sua funzione di universalità politica. La più alta delle sue idealità, la più profonda e drammatica delle sue passioni: idealità e passione che hanno fatto a lui trovare la forza e la saggezza necessarie per interpretare, orientare e dominare il corso della storia di questo titanico secolo, che porterà il Suo nome. Alla base dell’Impero, alla base del futuro ordine europeo e mondiale, c’è la Sua concezione dello Stato, c’è la Rivoluzione fascista: rivoluzione nell’ordine dello spirito come in quello del diritto, nell’ordine economico come in quello sociale. Pochi movimenti politici possono essere designati, nella storia, con la suggestiva parola di “rivoluzione” come il movimento fascista. E difatti una rivoluzione non è tanto un moto violento di popolo che, mediante la forza, conquista il potere, ma bensì un movimento politico-sociale, un processo storico che tende a dar vita, che vuole dar vita, che riesce a dar vita ad un nuovo ordinamento della società e dello Stato. Ossia la rivoluzione-mezzo per trasformare lo spirito del popolo e per instaurare un nuovo ordine: la rivoluzione non fine a sé stessa, ma mezzo per realizzare la nuova concezione politica attraverso un lavoro lungo e duro. Ed il Fascismo realizza la sua concezione politico-rivoluzionaria nell’ordine spirituale, risvegliando nel popolo il sentimento del dovere, della lotta, del sacrificio, l’abitudine della disciplina, il senso dell’obbedienza, l’idea della subordinazione dell’individuo allo Stato, della solidarietà, della collaborazione: nell’ordine politico e giuridico creando, sulle rovine dello Stato individualista liberale e democratico; sulle rovine dello Stato collettivista socialista e comunista, lo Stato Corporativo Fascista. L’originario dissidio tra Fascismo e vecchio mondo politico (n’è prova questo scritto del Duce) non risiedeva solo nei mezzi, come avviene tra liberalismo, democrazia e socialismo, bensì nel concetto stesso di Stato: dissidio insanabile profondo nei fini e quindi poi nei mezzi. La Rivoluzione delle Camicie Nere, fondata sull’eroismo e sul martirio, scese in campo per salvare i principi, le forze, le tradizioni, l’avvenire dello Stato, per salvare l’idea dello Stato, onde crearne uno nuovo: e ciò perché Mussolini, fin dalle origini del movimento, ha valutato il problema dello Stato come premessa fondamentale di ogni processo di civiltà, come condizione essenziale nella vita dei popoli, come punto di partenza verso l’organizzazione di un nuovo ordine internazionale. Quelli che ci apparvero come due momenti distinti, tutto volto all’interno l’uno, tutto volto all’esterno l’altro, non sono nella mente di Benito Mussolini che un solo momento della posizione rivoluzionaria del Fascismo. Venti anni di lotte e di esperienze, interne ed internazionali, ci fanno apparire chiari tutti i motivi mussoliniani. Ricordate quella proposizione mussoliniana: “il revisionismo sta alle nazioni, considerate nei loro rapporti, come il corporativismo sta alle classi, considerate nei loro rapporti ”? Tutta l’azione di Mussolini, dalla sua lotta per l’intervento alla costituzione dei fasci, alla Marcia su Roma, allo Stato Corporativo, alla guerra etiopica, all’accettazione della sfida inglese, alle sanzioni, alla guerra di Spagna, alla guerra anti-plutocratica ed antibolscevica, è profetica: l’esigenza di nuovi ordinamenti interni ed internazionali vi è profondamente ampiamente dispiegata in tutta l’intensità dei suoi motivi. Oggi nessun popolo, anche se nemico, può sottrarsi all’influenza dei principi rivoluzionari fascisti: i principi fondamentali, che vanno oggi universalmente affermandosi, sono i medesimi che hanno presieduto alla formazione dello Stato Corporativo Fascista. Le idee e le istituzioni costitutive della vita politica, giuridica, economica, sociale, sulle quali ed intorno alle quali lavorarono i giuristi, i filosofi, gli economisti, i sociologi dalla seconda metà del secolo XIX all’avvento del Fascismo, sono tutte profondamente alterate nella sostanza. Il Fascismo ha aperto nuovamente il problema dello Stato in tutti i suoi aspetti fondamentali. Oggi è dall’Italia, dall’Italia Mussoliniana, che il problema dello Stato e del diritto s’impone al mondo e con esso problema quello della organizzazione sociale ed economica. La guerra non è che la continuazione di questo processo storico rivoluzionario: ciò che caratterizza l’attuale conflitto è proprio la consapevolezza della crisi del sistema democratico non solo come ordinamento interno, ma anche come ordinamento internazionale, consapevolezza che Benito Mussolini per primo intese ed espresse in forme mirabili di pensiero e di azione. Consapevolezza che si è espressa, appunto, nel sorgere di un sistema politico, che nei suoi principi, nei suoi metodi, nella sua pratica istituzionale è perfetta antitesi della democrazia e barriera insuperabile al bolscevismo. La portata internazionale del Fascismo e del Nazionalsocialismo dipende appunto dalla superiorità delle loro istituzioni e dalla loro maggiore aderenza alla concretezza dell’esperienza politica, come esperienza storica. Ecco perché l’Europa si trova di fronte al più complesso processo del suo sviluppo storico, cui risponde un processo altrettanto complesso non soltanto politico sociale, ma di civiltà, nel senso più lato e profondo della parola. Questa posizione è la sola capace di rompere il cerchio inesorabile, plutocrazia-bolscevismo, che incatena i popoli: la plutocrazia, ch’è lo sviluppo estremo del capitalismo e del liberismo economico, il bolscevismo, ch’è lo sviluppo estremo del socialismo prequarantottesco. L’alleanza tra bolscevismo e plutocrazia era comandata dalla legge stessa di vita di queste due ideologie politiche: la vide Mussolini sin dal lontano 1919. Hanno un bel essersi combattute sordamente per venti anni: nell’ora della crisi suprema si sono trovate, e si dovevano trovare, alleate contro il comune nemico, che nega non solo ciò che è proprio di ognuna delle due, ma ciò che è comune ad entrambe. La lotta è tra due filosofie, tra due sistemi della vita, tra due concezioni dell’uomo. Da Stato-Antistato del 1922 al Codice Mussoliniano del 1941 è contenuto il grande apporto dell’Italia Fascista al nuovo ordine: e la storia, tra conservazione e rivoluzione, ha già scelto, ha scelto col diritto, nel nome del diritto, segreta potenza ideale dei popoli, con gli istituti e le forme del nuovo ordine.

(la versione dattiloscritta della conferenza è scaricabile sul sito dell’Istituto Biggini http://www.istitutobiggini.it/stato-antistato-fascismo/)

Un commento su “STATO – ANTISTATO – FASCISMO!

  1. […] Lo scritto che segue, il cui altissimo valore politico, nonostante i settantacinque anni trascorsi dalla sua stesura, è dato dalla sorprendente attualità del tema affrontatovi, riguardante tanto l’odierna crisi dello Stato italiano in particolare quanto, più in generale, quello del concetto stesso di Stato, attiene alla conferenza tenuta da Carlo Alberto Biggini ( [1902-1945] docente di diritto costituzionale e comparato, rettore dell’Università di Pisa, presidente della commissione di Mistica fascista ai littoriali, Ministro dell’Educazione Nazionale, membro del Gran Consiglio del Fascismo) presso la Scuola di Mistica Fascista in un periodo compreso presumibilmente tra il 1942 ed il 1943 (datazione che possiamo evincere approssimativamente da alcuni elementi presenti nel testo stesso, nel quale non è però riportata alcuna data precisa al riguardo). Un documento molto importante poiché analizza un particolare scritto mussoliniano risalente al 1922, riguardante la concezione dello Stato espressa nella visione politica dell’ideale fascista, osservato alla luce dei successivi sviluppi politico-sociali ventennali del Regime, che confermano a parere del relatore la lungimiranza delle analisi del Duce, mostrandone la reale capacità di saper coerentemente realizzare secondo peculiari modalità la propria originalissima Rivoluzione. Il testo è tratto da una discussione presente sul nostro forum de “IlCovo“. https://bibliotecafascista.org/2017/11/22/stato-antistato-fascismo/ […]

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